Emanuela Rossi racconta “Buio”, un thriller apocalittico per una profetica fiaba dark

by Nicola Signorile

Quando si dice un instant-movie. Buio è una piccola fiaba dark che racconta il presente distopico che stiamo vivendo. La globale reclusione forzata. L’apocalisse è all’esterno, conosciuta solo attraverso le narrazioni di un padre dittatore.

Il film mostra il bisogno d’aria della diciassettenne Stella, la bravissima Denise Tantucci, e delle due sorelline, Luce e Aria (Gaia Bocci e Olimpia Tosatto), rinchiuse in una casa con le finestre sbarrate. Ogni sera, il padre, interpretato da Valerio Binasco, rientra, si spoglia della maschera antigas e della tuta termica, porta il cibo alle figlie, aggiornandole con racconti cupi di un’umanità distrutta da un sole malato, resoconti di una lotta spietata per accaparrarsi il cibo.

Tra favola femminile e sci-fi ambientalista, Emanuela Rossi, al debutto alla regia, manipola i meccanismi di genere e costruisce una ardita metafora del contemporaneo. Un’opera prima postmoderna, scritta dalla regista con Claudio Corbucci, prodotta e distribuita da Courier Film, disponibile in streaming in direct to video (info su https://www.artexfilm.com/buio-un-film-di-emanuela-rossi/ o sulla pagina Facebook di Buio).

Emanuela Rossi

Emanuela, Buio è un debutto fuori dagli schemi, ricco di spunti. Perché ha scelto la via del thriller distopico?

“In effetti si tratta di una storia famigliare, di un dramma da camera. Sarebbe stato perfetto per un canonico film d’autore, cinema di cui sono anche appassionata. Ma non ho resistito, ho sentito il bisogno di superare la cifra del realismo. Per raccontare una ragazza di provincia soffocata dalla famiglia ho preferito una dimensione più simbolica, meno naturalistica. Storie di questo tipo sono già state portate sul grande schermo, pensa a Fassbinder o, più di recente, a Kynodontas di Yorgos Lanthimos. Mi sembra che negli ultimi anni ci sia sempre più voglia da parte degli autori di andare al di là del taglio realistico, del classico film d’autore fatto per i festival”.

L’esperienza alla co-regia della serie Non uccidere l’ha spinta in quella direzione?

“Sicuramente. Come Buio, anche la serie Rai era ambientata a Torino. Due anni che mi che mi hanno portato a stretto contatto con la morte. Ho girato ogni giorno, una scena dopo l’altra, su scene del crimine, e soprattutto nell’obitorio di Torino, tra cadaveri e l’odore di formaldeide che pervade tutto. Questo ha colpito il mio immaginario. Lì ho capito che con la morte non si scherza; alla base del cinema, seppure di finzione c’è qualcosa di reale, di terribile. Sono un’appassionata di cinema d’autore puro, ma grazie a quella esperienza ho scoperto il genere e i modi in cui i due mondi possono intrecciarsi e dialogare”.

Scelte ribadite nell’attenzione all’estetica del film, tra fotografia (di Marco Graziaplena), colori, costumi (di Carola Fenocchio) e scenografie (Massimo Santomarco). Niente atmosfere livide e colori freddi, nella casa si affastellano stili e oggetti di epoche e mondi differenti, tra tunnel di decompressione e costumi d’epoca.

“È un ambiente fatto a strati, caotico. Non esistono case con un solo stile, è un cliché cinematografico. Nelle case si sovrappongono epoche e stili differenti. Prima di dedicarmi al cinema, ho fatto la giornalista per riviste come Vogue, amo il design e l’arte moderna. Qui non abbiamo avuto molto tempo per provare: è un film indipendente e autoprodotto, però non avrei mai fatto un film senza curare questi aspetti sin nei minimi dettagli. C’è un padre chiuso nel passato, che ha fermato il tempo e non intende entrare nella modernità. Il suo desiderio di dominare è triste, patetico. Nella sua casa convivono busti dell’Ottocento e luci al neon, candele e caschi cyberpunk, all’insegna del postmoderno, del crossover di generi. I costumi segnano l’evoluzione dei personaggi, in particolare di Stella. Ci sono gli elementi anni 40-50, le camicie da notte delle figlie, poi gli anni 80, quelli di papà e mamma, con Il tempo delle mele che sentiamo risuonare varie volte e i filmati di aerobica in tv, poi c’è Stella che invece guarda al futuro e con il suo casco in testa va alla scoperta del mondo. La mamma (Elettra Mallaby) che è uscita per non tornare più indietro, evocata dalle ragazze nei loro giochi, doveva essere bellissima, bionda, tutta d’oro, con un bel costume giallo che mette in risalto la sua figura”.

 Buio evoca e accosta due distopie e due soffocamenti. Quello tra le mura domestiche rappresentato dalla famiglia patriarcale, quello esterno degli enormi centri commerciali e della catastrofe ambientale.

“Alla catastrofe ambientale all’esterno, costantemente evocata, si unisce una riflessione sull’aspetto claustrofobico della vita in famiglia, con regole che diventano imposizioni e il patriarca che vive per perpetuarle. Il Padre continua a ripetere che l’Apocalisse sta arrivando, ma cosa c’è di più distopico dei nostri centri commerciali? Un folle accumulo di oggetti, spesso non necessari. C’è qualcosa di aberrante nella famiglia, è stato raccontato tante volte, pensa a Tolstoj. Lo riconosco e convivo con questa visione: è una dimensione che pesa sull’individuo costretto ad adattarsi, a sacrificare le proprie aspirazioni. Ognuno in famiglia sente l’esigenza di avere il proprio spazio, ma il bisogno di uno spesso cozza con quello dell’altro. Il padre in casa ha creato il suo palcoscenico, ma sua figlia ha bisogno d’aria, di libertà. Le due più piccole sono vittime. Stella è al tempo stesso schiacciata da quello che sa e che forse ha dimenticato, dal senso di colpa. Ma cerca di uscire da questa situazione, di manovrarla a suo vantaggio”.

Un padre dominatore, ambiguo.  Come ha lavorato con  Valerio Binasco?

“Binasco è un grande attore con una lunga storia di teatro e cinema. All’inizio avevo un po’ di timore. Lui è stato  carino da subito, si è messo nelle mie mani, “sei tu la regista” mi ripeteva. Anche se ero al mio primo film. Ho cercato di tirar fuori qualcosa di suo, di personale, di umanizzare il personaggio. I ruoli negativi non sono così richiesti dagli attori italiani; Valerio invece ha accettato subito, voleva farlo. Il punto di vista del film però è quello delle ragazze. Non poteva essere altrimenti. In molte opere in cui si affrontano costrizioni famigliari, come Miss Violence di Avranas o il già citato Lanthimos, si sceglie di focalizzare l’attenzione sulla figura maschile di potere, sul Padre. Una visione maschilista, secondo me. Io ho provato a mostrare una dolorosa liberazione dal punto di vista di Stella e delle sorelle. Con un taglio femminile e seguendo la via dei film sull’adolescenza – penso a Lasciami entrare di Alfredson – si tratta di raccontare un’uscita dal guscio, un processo lungo e faticoso”.

Maschere antigas e reclusione forzata, sembra aver previsto tutto. Solo una sfortunata coincidenza?

“«Il mondo fuori è sporco, malato, lo hanno distrutto», ripete sempre il padre. Una frase chiave, unita alle immagini delle ciminiere sullo sfondo. L’Apocalisse incombe:  è paradossale che il film esca proprio in un momento in cui siamo rinchiusi in casa con i negozi chiusi. Soffro per l’inquinamento e per i cambiamenti climatici, spesso mi sono chiesta: ma se le temperature salissero ancora e non potessimo più uscire? Se dovessimo stare sempre rinchiusi? Da questa angoscia nasce l’idea di un film sulla quarantena, sul confinamento in casa, che poi in un attimo, pochi mesi dopo, è diventata tragicamente la realtà. Tra l’altro, nel film, l’isolamento delle nostre città si esprime in un tragico supermercato e centro commerciale, l’unico luogo che Stella frequenti fuori. A ottobre quando il film fu presentato al festival di Roma sentivo che qualcosa stava arrivando, una nube si stava addensando sulle nostre teste. Il nostro è un sistema che non regge più”.

Il mondo esiste solo attraverso i racconti del Padre che sono il mezzo con cui controlla le ragazze. Il potere costituito utilizza la narrazione per tenere a bada le persone. Leggendo tra le righe, ma neanche troppo, Buio è anche la metafora di un regime?

“Lo vediamo in questi giorni: esercitare il controllo attraverso una narrazione è il sogno di ogni dittatore. Ritrovarsi tra le mani una catastrofe consente di imporre regole anche molto limitative della libertà personale. La paura è il concetto-base con cui si affermano i regimi. La famiglia tradizionale, come più in generale la nostra società, esprime la paura di quello che c’è al di là dell’uscio domestico. Per quel che riguarda la religione, c’è la paura di commettere peccato e della conseguente punizione. Sono sistemi simili che si reggono a vicenda, Dio-patria-famiglia, la classica triade. Ho sempre contestato l’aspetto impositivo e punitivo della religione. Però Stella si nutre di idee religiose, dice Dio è buono, resta il un nucleo positivo della religione. Guardando quello che accade fuori, quale genitore non sente istintivamente il desiderio di sbarrare le porte di casa? Kinodontas uscì dieci anni fa: credo che allora fossimo più liberi. Ora i sovranismi stanno ritirando fuori quell’idea di religione per scopi politici. Pensavamo di andare verso un periodo di grande libertà, di aperture. Invece, scopriamo che dobbiamo proteggerci, rinchiuderci in vecchi recinti, tornare a paure antiche”.

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