“Gli anni più belli” di Gabriele Muccino corrono, scalpitano, urlano, trepidano. Smaniosi di afferrare la vita

by Nicola Signorile

Gli anni più belli è un burrascoso viaggio nel cinema di Gabriele Muccino. Un giro su una giostra dei sentimenti sulla quale tutti sono invitati a salire. Un racconto popolare che non può lasciare indifferente: scomposto, urlato, con una prima parte che oscilla tra il sopra le righe e il kitsch, ma sempre generoso ed estremamente vitale, con un senso del ritmo cinematografico da cui molti giovani registi dovrebbero prendere esempio. Un cinema mosso dai sentimenti e che muove sentimenti. Di ogni tipo: le risate e la rabbia, l’amarezza e la commozione, la malinconia e il disincanto. Gli anni più belli è la pellicola che più di ogni altra riassume in sé i pregi e i difetti (i “muccinismi”) del regista di L’ultimo bacio e La ricerca della felicità, una summa del suo cinema eccessivo e ricco di slanci, meno borghese dei suoi film precedenti.

La storia di quattro amici raccontata nell’arco di quarant’anni, dal 1980 a oggi, dall’adolescenza all’età adulta, è, per ammissione dello stesso Muccino, un omaggio/maxicitazione a C’eravamo tanto amati, capolavoro del 1974 di Ettore Scola con i personaggi di Giulio (Pierfrancesco Favino), Paolo (Kim Rossi Stuart), Riccardo (Claudio Santamaria) e Gemma (Micaela Ramazzotti) a ricalcare quelli di Vittorio Gassman, Stefano Satta Flores, Nino Manfredi e Stefania Sandrelli. Ogni paragone tra i due film sarebbe però ingiusto. Gli anni più belli è una piacevole canzone pop con un gran ritornello e note sdolcinate, magari di Claudio Baglioni, citato ben tre volte nel film, C’eravamo tanto amati una raffinata poesia d’autore, magari di Fabrizio De Andrè (c’è anche Via del campo nella colonna sonora). Due opere che nascono in un’Italia e all’interno di una cinematografia molto diverse: lì scrivevano Scola con Age e Scarpelli, qui, con tutto il rispetto, Muccino e Paolo Costella, sceneggiatore anche del precedente A casa tutti bene e di Perfetti Sconosciuti. In qualche modo, è il C’eravamo tanto amati che ci meritiamo oggi, con meno profondità e acutezza di sguardo, più ansioso e famelico di vita, più assolutorio verso i suoi amati personaggi, con la politica come un’ombra passeggera, che appare e scompare nelle vite delle persone, e le urla, le famigerate urla, considerate un po’ il marchio di fabbrica di Gabriele Muccino.

E quante ce ne sono nella parte iniziale, un tuffo negli anni ’80 tra capelli cotonati, giubbotti di jeans, il Rock di Capitano Uncino e i balli stretti stretti sulla mitica  Reality de Il tempo delle mele, il tutto amplificato dalla ossessiva colonna sonora  di Nicola Piovani. Giulio (Francesco Centorame) e Paolo (Andrea Pittorino) fanno la conoscenza di Riccardo (Matteo De Buono) durante una manifestazione politica alla quale si ritrovano per caso. Quel giorno nascerà il soprannome di Riccardo, Sopravvissuto, o meglio Sopravvissù, ma soprattutto una lunghissima storia d’amore – come altro si possono definire le amicizie che attraversano una vita? – tra i tre ragazzi, tra i quali presto farà irruzione la bella e sensuale Gemma, da adolescente interpretata da Alma Noce, di cui Paolo è  perdutamente innamorato. I quattro attor giovani, incredibilmente somiglianti alle loro versioni adulte, si adattano ai dettami del regime mucciniano, al sopra le righe costante che comunque lascia l’impressione di aver visto all’opera talenti che rivedremo presto, specialmente Andrea Pittorino e Alma Noce. Corrono, scalpitano, urlano, trepidano, smaniosi di afferrare la vita, ricolmi di sogni e speranze. Vivono in pieno quell’età magmatica che è l’adolescenza, felici di una corsa in macchina che li fa brindare “alle cose che ci fanno stare bene” –  un fil rouge che li accompagnerà a lungo – uno di quegli attimi semplici che non assapori abbastanza prima che la vita ti arrivi addosso, travolgendoti, con i suoi inganni e fallimenti. Il tempo è il motore della narrazione, indifferente, come nella vita reale, alle aspirazioni dei protagonisti, li modifica, fa accettare loro cose che parevano inaccettabili, li rende cinici, per poi, all’improvviso, incantarli nuovamente, facendoli sentire adolescenti anche quando non lo sono più. Muccino dice una cosa ovvia che qualsiasi adulto ha imparato sulla propria pelle: da giovani vogliamo cambiare il mondo, ma il più delle volte è il mondo a cambiare noi.

La Storia è solo un contesto, uno sfondo che di tanto in tanto puntella il racconto introdotto dalla voce fuori campo, la caduta del Muro, Tangentopoli, la discesa in campo del Berlusca, le Torri Gemelle. Eventi che hanno poca influenza sulle vite dei nostri eroi, le cui azioni sono mosse più da ragioni intime, personali, emotive. La scomparsa del collettivo è una cifra distintiva della generazione raccontata dal film, quella dei cinquantenni di oggi, nati troppo tardi per cambiare qualcosa e cresciuta nel complesso di non essere all’altezza delle precedenti, schiacciati dai padri. Dentro Giulio, Paolo e Riccardo ci sono tre diverse anime dello stesso Gabriele Muccino, è evidente dalla tenerezza con cui sceglie di accarezzare i suoi personaggi, di stargli accanto con la macchina da presa anche quando prendono clamorose cantonate, quando sbagliano mettendo da parte i propri sogni.

Riccardo Morozzi è un sognatore, un artista senza talento, un uomo che ricercherà a lungo il proprio centro, tra cinema, giornalismo e poi la politica, in un simil movimento 5 stelle. I sogni messi da parte torneranno a chiedergli il conto trascinando a fondo il matrimonio con l’aspirante attrice Anna. Riccardo, un buono, sempre positivo, vivrà nel passato e nella nostalgia di riviverlo, per questo sarà il collante del terzetto. Nel ruolo di una donna così piena di risentimento nei confronti del marito da negargli un rapporto con il figlio, debutta sul grande schermo la cantante Emma Marrone, ingrato compito che porta a casa senza sfigurare, nonostante una ancora evidente inflessione salentina. Giulio Ristuccia (un cognome forse portafortuna per Muccino che lo ha utilizzato in Come te nessuno mai, Ricordati di me, A casa tutti bene e persino in uno delle sue pellicole americane, Quello che so sull’amore) è uno cresciuto con la “puzza della fame” addosso che non vede l’ora di non sentirla più, di allontanarsi da suo padre, di agguantare la vita. Si laurea in giurisprudenza e all’inizio difende gli ultimi da avvocato d’ufficio. Si innamorerà di Gemma, portandola via a Paolo. Il primo atto dell’evoluzione (o involuzione!) che lo porterà a cedere alle lusinghe del denaro e dell’ascesa sociale. Il compromesso lo porterà fuori rotta, lontano dai suoi amici, in un’esistenza fatta di ricchezza e falsità. Una fase che richiede una nuova compagna come Margherita (Nicoletta Romanoff, l’aspirante velina di Ricordati di me), figlia di un onorevole ex-ministro della Sanità, un losco figuro maneggione e tangentaro interpretato in modo eccelso da Francesco Acquaroli.

Paolo Incoronato è il personaggio più coerente del film. Riflessivo e malinconico, amerà Gemma per sempre; come lei nessuno mai, direbbe Muccino. Con una mamma ingombrante e un sogno concreto, insegnare. È uno di quelli che non riesce a buttarsi il passato alle spalle, è leale. Non si capacita del fatto che il suo miglior amico e la sua donna possano averlo tradito. Un idealista che crede nel potere di emancipazione della cultura e nel senso della sua  professione, l’insegnamento, per tramandarla ai giovani. Un uomo onesto che il tempo non cambierà, (“non lasciate che sia il mondo a definirvi” dirà agli studenti prima della maturità) facendolo sembrare agli occhi degli altri, sempre irrequieti, sempre irrisolti, noioso o pesante, come gli diranno Riccardo e Gemma, tuffandosi nella fontana di  Trevi (altro omaggio di Muccino ai padri, “manca solo Mastroianni”) in una notte di follia mentre il bel Kim li manda sonoramente a fanculo, “io domani lavoro, mica come voi!”.

La prima parte è tempestosa come tempestosa è l’età che racconta. Urla a squarciagola, patimenti d’amore struggenti, corse a perdifiato, tutto l’armamentario mucciniano che ben conosciamo dai tempi di Come te nessuno mai, messo in campo per fotografare la liaison tra Gemma e Paolo e il bisogno di affrancarsi dal padre balordo di Giulio; meno a fuoco Riccardo, del quale scopriamo subito la voglia di possedere un corpo femminile, in un onanistico rimando felliniano, e la casa al lago dove i genitori hippie accolgono i tre amici in estate e dove Riccardo troverà rifugio nei momenti di sconforto. Gli anni passano (il lavoro di ricostruzione è supportato da professionisti come Eloi Mori alla fotografia, Patrizia Chericoni ai costumi o Tonino Zera alle scenografie), i bollori si stemperano, Il galoppo lascia il posto al piccolo trotto, ma la narrazione non perde ritmo e coerenza.

Anzi, a guadagnarne sono i dialoghi e la recitazione. Anche perché Muccino cala gli assi, riunisce il trio maschile del Romanzo Criminale di Michele Placido, affidandosi a Favino, al terzo film con il regista (era nel cast di A casa tutti bene), e Santamaria che recitò nel suo esordio Ecco Fatto;  poi entrambi furono tra i protagonisti de L’ultimo bacio e complici nel pessimo sequel Baciami ancora. Prime volte in un suo film invece per Kim Rossi Stuart, al quale spetta il personaggio più riuscito, che incarna con malinconia e adesione totale, e Micaela Ramazzotti, efficace nel disegnare una donna irrisolta, in balia degli eventi e degli uomini, sempre alla ricerca di qualcosa che possa colmare il vuoto che ha dentro. Abbiamo già visto l’attrice romana alle prese con questo genere di ruolo, una di quelle che “la danno via con la fionda”, come l’apostrofa il suo Paolo tradito per Giulio. Corde che Micaela Ramazzotti ha già mostrato di possedere e che rischiano di rinchiuderla in un cliché attoriale, complice un po’ di pigrizia nella scrittura dei personaggi femminili.

La maturità fa bene a Gli anni più belli con il suo carico di aspettative tradite e di rimpianti. Gli  anni della riflessione e dei conti col passato sono raccontati con misura e la giusta malinconia con alcune scene davvero ben riuscite, come la cena al ristorante dei tre amici invecchiati o il nuovo incontro tra Paolo e Gemma in autobus. Tanti errori sono stati fatti, alcuni dei quali irreparabili. Ma non è mai troppo tardi, sembra voler dire l’autore romano. C’è sempre tempo per aggiustare le cose, per far pace con noi stessi. Si può stare al mondo ed essere felici in un modo nuovo, molto differente da come l’avevamo immaginato in gioventù. “Il sorriso è il segno che ce l’abbiamo fatta”, sentenzia Paolo citando Madre Teresa di Calcutta. Restano le cose che ci fanno stare bene, come l’amicizia. Semplicistico? Forse sì. Ma è un modo di far tornare i conti dopo un lungo giro di giostra che ci ha lasciati senza fiato.

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