La ragazza d’autunno, di Balagov: Leningrado e una spilungona tornano a vivere con i colori saturi

by Nicola Signorile

Un film di poderosa bellezza di Kantemir Balagov, 28enne russo virtuoso della macchina da presa che si era fatto notare due anni fa con l’opera prima Tesnota. Un Certain Regard a Cannes accolse il film d’esordio di Balagov, così come ha fatto con Dylda (ovvero spilungona o giraffa in russo, Beanpole in inglese) premiato nella sezione per la miglior regia e con il premio Fipresci. Le macerie che la guerra ha prodotto negli spiriti e nei corpi di chi è sopravvissuto sono il cuore di Beanpole.

Un enorme talento visivo come quello di Balagov, affinato nel laboratorio creativo di Alexander Sokurov, si mette al servizio di una dolorosa danza di  anime alla ricerca di un senso, di una ricostruzione fisica e morale.

Un perfetto esempio di quanto la cura formale possa dare ancora più forza ai contenuti di un’opera, ispirata principalmente a La guerra non ha un volto di donna del Premio Nobel 2015 Svetlana Alexievich. Siamo nel 1945 e Leningrado (oggi San Pietroburgo) ha subito uno dei più orrendi assedi che la storia ricordi, lasciando dietro di sé edifici abbandonati e distrutti, macerie, corpi deturpati, volti segnati, sguardi vuoti. Una umanità sconvolta che non si capacita di essere ancora in vita, ha bisogno di continue prove della propria esistenza. Di toccarsi, dimenarsi, muoversi continuamente. Dopo la devastazione è necessario re-imparare letteralmente a vivere, a provare ed esprimere sentimenti. Ne è prova la spilungona del titolo: Iya è una ragazza bionda, timida, molto alta che si prende cura dei feriti in un ospedale cittadino, una giraffa goffa, sgraziata (per i fan del Trono di spade ricorda la Brienne di Tarth di Gwendoline Christie) che di tanto in tanto si blocca, imbambolata, probabilmente per un trauma subito durante la guerra. Si prende cura del piccolo Pashka, la cui vera madre, Masha, tornerà presto dal fronte. Iya e Masha sono due donne segnate profondamente dalle esperienze vissute durante il conflitto che rappresentano due modi opposti di affrontare la nuova realtà: sempre impacciata quella di Iya, determinata e protesa verso il domani quella di Masha, due femminilità complementari magistralmente incarnate dalle attrici Viktoria Miroshnichenko (candidata come miglior attrice ai prossimi Efa, gli Oscar europei) e Vasilisa Perelygi, premiate entrambe per l’interpretazione al festival di Torino.

 La ragazza d’autunno è un film di colori saturi, di rossi, ocra e verdi usati sapientemente nelle decorazioni degli interni e nei costumi, quasi a dare calore e vivacità ad ogni scena. Una messa in scena elegante ed estremamente curata (grande lavoro alla fotografia di Ksenija Sereda) che non toglie affatto immediatezza e verità a ospedali di fortuna, appartamenti ammobiliati alla meglio, strade polverose, squallidi caseggiati e tram dove ci sembra di tremare dal freddo accanto a Iya, in una Leningrado che cerca di tornare a vivere. I disturbi post-traumatici al cinema sono quasi sempre stati raccontati al maschile. Balagov apre uno squarcio originale sul contributo dato dalle donne che hanno combattuto nella seconda guerra mondiale, sulle loro ferite e sui sacrifici che la guerra ha richiesto loro. Cosa succede a un corpo cui la natura ha dato il potere di donare la vita, dopo essere sopravvissuto alle prove della guerra? L’emozione domina la prima parte del film con le scene di vita quotidiana di Iya e Pashka tra le mura domestiche e in mezzo ai reduci ricoverati, fino ad un momento piuttosto sconvolgente che precede il ritorno a casa di Masha. Le due giovani donne intraprendono la propria battaglia giornaliera in un mondo di mezzo in cui le pratiche del tempo di guerra sono ancora la normalità. La loro quotidianità è fatta di compromessi e ricatti indicibili, malcelati traumi e sotterfugi cui si ricorre per poter toccare con mano un briciolo di normalità.

Un limbo che Iya e Masha affrontano sostenendosi l’un l’altra, in un rapporto simbiotico, a tratti morboso. Per Masha, andare avanti vuol dire avere un altro bambino: “lui mi guarirà, voglio qualcosa a cui aggrapparmi”, confessa all’amica. La cura è una nuova vita, per ridare senso alla propria. Ma le perdite più traumatiche causate dalla guerra si materializzano sui corpi delle donne. Le osserviamo nei silenzi, nei momenti di blocco di Iya, ma anche negli approcci accennati del timido Sasha che si avvicina con circospezione alla vitale Masha come un terzo incomodo che potrebbe però rappresentare il tanto agognato posto al sole. La donna tornata dal fronte non può più avere figli e reclama un figlio dall’amica. Dovrà essere lei a portare avanti la gravidanza, “lui ci guarirà”. Un insopprimibile desiderio di maternità che la porterà a coinvolgere meschinamente il primario (Andrey Bykov) che, dopo Iya, ha accolto nell’ospedale anche Masha, dandole la possibilità di guadagnarsi da vivere come infermiera. La ragazza d’autunno avvolge lo spettatore con i suoi tempi dilatati, con i giochi cromatici, con ritratti d’interni alternati ai primi e primissimi piani. Un dramma storico dal forte sapore contemporaneo; racconto, al tempo stesso intimo e universale, che si confronta con le conseguenze della guerra da un punto di vista femminile. I conflitti non terminano con la fine dei combattimenti per Kantemir Balagov. La guerra scava nel profondo delle persone. E fino a quando sarà dentro di loro, non avrà mai fine.

Un’opera che richiede, e merita, 130 minuti di attenzione. Non sarà semplice trovarlo in sala, ma cercatelo. Resta qualche perplessità sul letterario titolo scelto per l’uscita italiana, La Ragazza d’autunno: perché non conservare l’originale Spilungona?  

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