“Le cose normali non possiamo permettercele più”. La forza del Sud che non si arrende nel film di Leo Muscato

by Nicola Signorile

Una cittadina che sembra deserta, una campagna bruciata dal freddo. Due fratelli pugliesi, Vincenzo e Sabino, impegnati in una quotidiana lotta per sopravvivere, stritolati dai debiti, dalla burocrazia, da un sistema votato al possesso e al consumo che ha depauperato chi, un tempo, senza esser ricco, riusciva a passarsela decentemente. Con le rispettive mogli, Maja e Angela, desiderano cose normali che normali non sono più, come un figlio. Sempre sul punto di perdere tutto, nell’attesa, perenne, di una svolta.

Il regista teatrale e drammaturgo Leo Muscato ha tratto il suo primo film La rivincita, dal 4 giugno disponibile su RaiPlay, da un testo teatrale, poi diventato romanzo, di Michele Santeramo, insieme al quale ha scritto la sceneggiatura. Un apologo sulla precarietà tutto pugliese, dalle location – Martina Franca e Locorotondo – agli autori Muscato e Santeramo, dal produttore Cesare Fragnelli con la sua Altre Storie (con Rai Cinema e il contributo di Apulia Film Fund) a gran parte di troupe e cast, Michele Cipriani e Michele Venitucci, i due protagonisti, con Sara Putignano (Maja è interpretata dall’attrice di origini turche Deniz Özdoğan), Franco Ferrante, Domenico Fortunato, Vittorio Continelli, Francesco De Vito.

I due protagonisti hanno ereditato una vecchia casa divisa in due micro-appartamenti; Vincenzo si occupa di un terreno che gli verrà espropriato in cambio di un risarcimento irrisorio, Sabino  gestisce con Angela il chiosco di fiori davanti al cimitero. Partono da una condizione non disperata, ma non ce la fanno. Il destino sembra sempre remargli contro. Una batosta dopo l’altra, finiranno nelle mani degli usurai. Pur scontando un impianto eccessivamente teatrale e una certa incertezza nel tono complessivo dell’opera, sospesa tra commedia drammatica, pamphlet di denuncia e dramma famigliare, La rivincita si lascia apprezzare per la volontà di rimettere al centro della discussione “gli invisibili del quotidiano”. Un’operazione sincera nata a Sud per raccontare il Sud, ma in grado di tratteggiare una condizione ormai universale. Chiedere a Ken Loach.

Muscato, come ci si sente a debuttare a 46 anni?

«Pensa che ancora oggi, dopo anni di regie di opere liriche e spettacoli di prosa, vengo definito giovane autore. Al cinema, succede di fare il primo film a 50 anni. Mi sta bene».

Una storia che ha una lunghissima gestazione, qual è la sua chiave?

«Sì, è una storia forte che ci è rimasta addosso. Portammo in scena La rivincita a teatro nel 2013 con grande successo, poi Michele Cipriani pubblicò l’omonimo romanzo ampliando le storie dei personaggi. Però volevamo che raggiungesse un pubblico più ampio, perché pensiamo sia giusto parlare dei nuovi poveri. Il film è frutto di un lavoro collettivo: mentre scrivevamo la sceneggiatura (che cambia molte parti del libro), io provavo con gli attori. Una esperienza che nasce sul territorio scritta e interpretata da pugliesi. Una radice alla quale siamo attaccati da sette anni».

Chi sono quelli che definisce i nuovi poveri?

«Sono gli invisibili del mondo che ci circonda, involontari protagonisti di un incubo quotidiano. Una volta i poveri venivano identificati con i senzatetto o con persone provenienti da paesi lontani, oggi ci sono moltissime persone che da un momento all’altro si trovano a vivere una condizione di povertà estrema, di precarietà economica, lavorativa e affettiva. Di conseguenza, a doversi privare di tutto, anche di cose che abbiamo sempre considerato normali. Un figlio è una cosa normale. “Ma le cose normali non ce le possiamo permettere più”, così risponde Vincenzo a sua moglie».

Non se ne parla abbastanza?

«Si fa finta che il problema non esista. E sembra che non ci sia rimedio. Credevamo di essere in ritardo quando l’abbiamo scritto, in realtà è sempre più di attualità, soprattutto dopo quello che abbiamo vissuto in questi mesi che non fa che acuire le difficoltà di molti. Vincenzo per racimolare un po’ di soldi decide di vendersi il sangue, gli serve per una costosa cura per la fertilità, causata dall’utilizzo dei veleni in campagna. Pensa alle discussioni di questi giorni sulla vendita del plasma: situazioni che possono apparire estreme, ma la realtà arriva  sempre  a superare la fantasia. Dalle persone che conosco, dai nostri incontri in questi anni, mi sono fatto l’idea che parliamo di una platea sempre più vasta».

Perché precarietà e nuove povertà sono argomenti quasi tabù in Italia?

«La ragione non la conosco. Forse perché è meno visibile di una volta, somiglia alla normalità. I nuovi poveri non vanno in giro vestiti di stracci, si vestono bene, però magari in casa riducono al minimo i consumi di energia elettrica e di acqua. Vanno in giro con una vecchia auto tutta scassata. Persone per le quali venti euro in tasca fanno la differenza. Un problema di tanti: non sono più una minoranza. Il ceto medio si è notevolmente ristretto. Penso ai lavoratori dello spettacolo, i primi a fermarsi per il lockdown e gli ultimi a ripartire. Io ho fatto per anni il cameriere, poi il portiere di notte in ospedale, dopo anni di lavoro in teatro oggi vivo una condizione di privilegio che mi consente di sostenere con tranquillità questo stop. Ma per la gran parte degli addetti al settore la precarietà è assoluta. Tra un anno o anche meno, rischiamo che questo disagio esploda. E forse è la paura di sollevare polveroni che spinge a non parlarne più di tanto».

Però nei vostri personaggi c’è la forza del Sud che non si arrende, combatte le avversità, lotta con tenacia contro la porca miseria.

«Certo, è una loro caratteristica fondamentale. Nelle difficoltà la famiglia è il nucleo chiuso che si compatta contro l’esterno, in questo caso contro il destino avverso. Le due coppie con Marco, il figlio di Sabino, rappresentano questo nucleo. Ognuno di loro non riesce a fare a meno dell’altro, anche quando la pensano diversamente o fanno scelte diverse. “Non ti rassegnare, mai ti devi rassegnare”, si dicono l’un l’altro. Un’altra arma è l’ironia, un aiuto fondamentale nell’affrontare le situazioni per noi meridionali».

Ma la famiglia è anche il luogo dove ci si fa più male,  non crede?

«Certo, accade al piccolo Marco. La sua unica passione è il ballo latinoamericano, ma non può più prendere lezioni, perché suo padre non ha soldi. Poi deve fare i conti con le fragilità di sua madre Angela che ha un rapporto pessimo con la maternità, si sente inadeguata al ruolo. Fa una scelta estrema, di fuga. Quando suo figlio le chiede “Cosa hanno i bambini africani più di me?” credo sia un momento molto forte. Le fragilità e le debolezze ci portano a far male alle persone che amiamo. Per non parlare del rapporto tra i due fratelli o della richiesta di Vincenzo a sua moglie Maja di rinunciare al figlio che porta in grembo».

La sua città, Martina Franca c’è, ma è trasfigurata, ha un aspetto spoglio, scabro.

«Non abbiamo mai immaginato il film in un altro luogo. Tuttavia sullo schermo non vediamo la splendida cittadina barocca, non sarebbe stata credibile una vicenda di questo tipo in quel contesto. L’immaginario collettivo non associa la povertà ai luoghi di bellezza. Anche se la storia de La Rivincita è archetipica, è ormai adatta a qualsiasi luogo. Quando si pensa alla povertà vengono in mente luoghi degradati, Scampia o il Serpentone a Roma, in realtà oggi il disagio dilaga anche in parti del paese come l’Emilia Romagna o Venezia, che non avremmo mai associato fino a qualche anno fa a queste situazioni».

Il film non andrà in sala ma subito su RaiPlay, è una scelta che la convince?

«Ho fatto una scelta radicale: non inserire musica nel film, escluso lo splendido brano No potho reposare, un canto d’amore della musica tradizionale sarda interpretata dal maestro e amico Paolo Fresu, che nel finale scioglie la tensione, ti prende e ti porta via. Ho lavorato molto sul suono pensato e costruito, come tutto il film, per la sala. Eravamo molto eccitati per la selezione al Bif&st dove avrei potuto incontrare una figura mitologica per me come Ken Loach. Poi, sappiamo com’è andata. A quel punto, probabilmente La Rivincita non sarebbe mai uscito, rischiavamo di finire nel dimenticatoio. Quindi, esser stati selezionati da Rai Cinema tra questi otto film è stata una botta di fortuna. Una grande occasione di raggiungere un gran numero di persone, più di quante lo avrebbero visto in sala di sicuro. Siamo strafelici e grati a Rai Cinema per aver avuto l’idea».

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