La douleur, per rivivere l’attesa delle donne

by Antonella Soccio

Chi ha amato profondamente il romanzo autobiografico “Il dolore”, “La douleur” di Marguerite Duras non può perdere la versione cinematografica nelle sale di Emmanuel Finkel, che ha lo stesso titolo dell’opera La Douleur.

Nella settimana che condurrà alla Giornata della Memoria si tratta di un film, che permette di approfondire e ristudiare con passione, ove possibile, gli anni della dominazione nazista e dell’Olocausto. Il ritorno degli ebrei dai campi di concentramento, l’attesa delle donne, il riposizionamento del generale Charles De Gaulle, che a liberazione effettuata si approprierà anche della resistenza comunista e socialista.

Nella Francia nazista

Il mito di Duras, che già durante la guerra era una scrittrice molto famosa in Francia, è interpretato dalla bellissima Mélanie Thierry, a cui si perdonano anche delle espressioni forse troppo monocordi. Il regista insiste moltissimo sui suoi primi piani, che scavano nel dolore.

Robert Antelme, marito di Duras, viene tradito, arrestato e deportato. Sua moglie insieme al comandante partigiano Morland, ossia François Mitterand, riesce a seguirlo, grazie ad un commissario legato ai nazisti, Pierre Rabier, protagonista di uno dei tre racconti che formano “Il dolore” col nome di Signor X. Ma non a liberarlo, prima della deportazione a Dachau.

L’intellettuale Robert, autore nel 1947 de La specie umana in cui ripercorre la sua prigionia, torna solo nel maggio del 1945 insieme a François Mitterand, che lo va a recuperare.

Il film è di rara bellezza. Gli spettatori seguono sul volto e sul corpo della protagonista gli stati d’animo, la trepidazione, l’amore per il marito scomparso, le tattiche per ottenere informazioni utili. La paura fa sgranare l’immagine, lo spettatore cammina insieme alla protagonista per le strade di Parigi, ad occhi appannati.

Il primo tempo è giocato tutto sull’inquietudine. Quando Duras-Thierry comincia a scrivere il suo diario per fissare su carta il suo dolore, il pubblico è immerso nello sdoppiamento dell’autrice, che si vede vivere, in un’autoanalisi impietosa e spesso dura, essere e dover essere, desiderio e realtà, tanto che l’amico Dionys pronuncia la domanda in cui è custodito tutto il film. “A cosa tieni di più a Robert Antelme o al tuo dolore?”.

Il lungometraggio è anche uno straordinario monologo della voce narrante, con le parole del libro: l’autobiografia letteraria in una riduzione si fa immagine.

Ci siamo solo noi ad aspettare ancora; è l’attesa di sempre, l’antica attesa delle donne di tutti i paesi del mondo, che gli uomini tornino dalla guerra.
Marguerite Duras

Bellissime e commoventi le scene con la madre che aspetta la sua figlia disabile ebrea dai campi, preparando la valigia con i suoi abiti, lavati e appesi ad asciugare in casa come un bazar. Simulacri dei corpi uccisi. Una installazione d’arte nel film, indimenticabile.

Duras collaborò infatti alla compilazione di Libres (“Liberi”), il giornale che informava i parenti delle persone deportate in Germania. Nei primi mesi del 1945 molti non sapevano dell’esistenza dei campi di concentramento, del gas. Non si riteneva possibile tanta atrocità. L’anno zero dell’umanità, come lo chiama Duras.

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