Maurizio Rana, mùsico ispirantista, e la premiata ditta Maramama

by Enrico Ciccarelli

Maurizio Rana, foggiano di età non più verde e di solidi affetti, voce pacata, piglio austero e sguardo di bambino, è un mùsico. Non nel senso di musicista, benché fra le altre cose lo sia. Ma nel senso di amico delle Muse, le nove figlie di Zeus e Mnemosine che risiedono sul Monte Elicona e bevono alla sorgente Ippocrene, fatta zampillare da un colpo di zoccolo di Pegaso, l’alato destriero del mito.

Rana è principalmente un handpan player, un compositore e bravo utilizzatore di questo strumento alieno, nato in Svizzera alle soglie del millennio ad opera di ingegneri del suono. Metà disco volante, metà carapace di testuggine, l’handpan è stato pensato come attrezzo di musicoterapia, con le sue vibrazioni percussive che ripetono frequenze cosmiche e ancestrali, arieggiano la radiazione di fondo dello spazio interstellare, la cosiddetta musica dell’universo, e inseguono le misteriose relazioni fra i suoni e l’armonia che l’umanità indaga dai tempi di Pitagora di Samo.

Di fronte alla antica e bellissima chiesa di San Basilio in Troia, nell’ambito delle manifestazioni culturali di quel Comune e del Teatro Pubblico Pugliese, i diversi handpan di Rana (che evolvono per anno di costruzione e materiali) sono valorizzati e massimizzati da un mago dell’audio come Marco Maffei, che dispone microfoni e casse intorno alla piccola platea perché le vibrazioni positive racchiuse nella musica raggiungano al meglio il pubblico. Non sapremmo dire se tutti si sentono meglio, ma di sicuro tutti sentono benissimo.

È quella che potremmo chiamare la premiata ditta Maramama, dalle prime sillabe delle due generalità: ed è nutrita di talento, competenza tecnica e grandissima voglia di divulgazione e condivisione.

Sì, perché Rana non è appagato dalla sua particolarissima specializzazione e dall’abilità che, come tutte le altre, ha appreso da autodidatta. Lui semina, ibrida, sparge. Non teme, e forse non concepisce nemmeno, gli specialismi delle varie arti, le loro accademie, il loro autoreferenziale protezionismo. Per questo spazia, sempre con la stessa scapigliata disinvoltura di autodidatta, non solo dalla musica alla letteratura alle arti visive, ma anche dall’una all’altra casella del percorso di produzione di un’opera d’arte, di una performance, di uno spettacolo artistico. Una musica è di chi la compone o di chi la interpreta e magari la innova? Un quadro è di chi ne traccia la sinopia o di chi aggiunge l’ultima pennellata? Una poesia è il verso tracciato o il moto d’anima che lo ha dettato?

L’espressione artistica, in questa accezione, è afflato collettivo, non solo esperienza individuale. Un continuo e contaminato gettare ponti fra il sé e l’altrui, fra la memoria e il presagio, un’attesa di ispirazione (ispirantismo si chiama la corrente artistica a cui idealmente si iscrive) che ricorda il volo apparentemente svagato della libellula, non per caso simbolo ricorrente delle sue creazioni. L’arte e la bellezza sono in ogni dove, dicono le note dei suoi handpan, e chiunque può coglierle. Purché prima si sia fatto una bella galoppata con Pegaso.

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