Federico Maria Giansanti racconta “Safe”, in attesa di vederlo al teatro Trastevere

by Claudia Pellicano

Una giovane donna dal passato difficile sceglie di votare la propria vita a Dio e si ritrova, in piena pandemia, costretta e isolata in uno sperduto paese di montagna dove interloquisce esclusivamente con altri due personaggi, che non entrano mai in scena: Paul, che la aiuta, come può, a sopravvivere, e Mrs. Parker, una donna malata di cui si prende cura. Questa la trama di Safe, il monologo scritto e diretto da Federico Maria Giansanti, che sarebbe dovuto andare in scena al teatro Trastevere a novembre, e che è stato temporaneamente sospeso per via delle più recenti restrizioni in ambito Covid.

Com’è nata l’idea per questo spettacolo e per questo personaggio in particolare?

L’idea è nata durante il confinamento iniziato a marzo, un periodo di lettura e scrittura molto intenso per me. Ho provato a indagare le mie sensazioni scaturite dalla costrizione e dalla non libertà di movimento e di contatto fisico esterno e da lì a poco ho deciso di scrivere un testo su questa situazione. I primi appunti erano solo riguardanti lo stato d’animo e ciò che mi premeva di più raccontare di me stesso, vale a dire la voglia di ripartire e la fede cieca nella speranza che prima o poi saremmo tornati alle vite di tutti i giorni; la cosa che mi ripetevo ogni giorno era di tenermi attivo con una routine che rendesse la giornata piena per tutto quello che concerne il mio lavoro e che fosse possibile mettere in pratica in una casa.

Per seconda cosa ho pensato a come rendere interessanti questi sentimenti e per questo ho deciso di parlare di una categoria di persone a cui non si faceva mai riferimento, alle persone che non sono propriamente vicine a tutti quanti; dapprima ho pensato alle figure di personaggi borderline quali tossicodipendenti o sicari o comunque individui di base già molto soli, poi sono giunto a ciò che più mi premeva, ovvero trovare una figura che incarnasse il sentimento di solitudine crescente e che si potesse miscelare con quello di una speranza innata. Da lì l’idea di una suora, una persona credente che affida il suo destino completamente al volere divino. Ovviamente per rendere la storia credibile e interessante, soprattutto parlando di un argomento di cui abbiamo parlato e parliamo costantemente, questa suora andava “posizionata” in un contesto particolare, in una situazione in cui sopravvivere è difficile; un paese di montagna costituito da una piccolissima comunità di persone estremamente lontane dal resto circondante. In Safe si parla di solitudine, di speranza ma anche di dubbio, la condizione di Sister Daisy è quella di una suora che si fa carico di essere il collante tra i membri rimanenti della sua comunità facendo affidamento su Dio e sulla speranza di un segno che non sembra mai arrivare.

Safe racconta anche una storia di fede religiosa, in che cosa ha fede un artista?

Un regista, un autore ma anche e soprattutto un attore hanno il compito di mettersi nei panni degli altri. Questo compito porta a una conoscenza di sé e del mondo che ci circonda molto elevata, di conseguenza si ha l’opportunità di mandare impulsi e messaggi allo spettatore che vedendoci può immedesimarsi in un personaggio, rivivere una storia e capirne il senso. Senza contare tutto il lato didattico della professione, fare teatro e cinema significa insegnare, istruire, crescere, coltivare qualcosa in ognuno di noi.
Con il teatro e con il cinema puoi ridere se sei triste, puoi piangere, puoi riflettere, puoi anche annoiarti e puoi persino arrabbiarti vedendo qualcuno che si arrabbia con te (insieme a te o contro di te) e/o per te. Quando guardi uno spettacolo o un film vedi una testimonianza, un qualcosa che ti rimane e che in qualche modo ti smuove. Per questo si ha fede nel fatto che un artista possa far scaturire delle emozioni accompagnando lo spettatore in un viaggio.

Poi sta allo spettatore decidere che uso fare di queste emozioni. Un po’ come il libero arbitrio.

Nello spettacolo la protagonista è tagliata da ogni comunicazione con l’esterno. Che differenza c’è tra solitudine e isolamento?

È una domanda cui saprebbe rispondere sicuramente meglio uno psicologo, io per scrivere questo testo sono partito dall’idea della costrizione. Nel nostro caso l’isolamento viene imposto, non è una scelta. Noi abbiamo vissuto un confinamento imposto da fattori esterni, nessuno ha scelto di isolarsi di propria sponte. In carcere il detenuto viene isolato se commette all’interno della galera un atto criminale (un’aggressione verso altri detenuti, per esempio). Io ho cercato di trattare la solitudine come evoluzione dell’isolamento, come una sua stretta conseguenza. Parlare principalmente della solitudine sarebbe stato molto più complicato, sicuramente più profondo, ma non avrebbe dato giustizia all’idea del testo.

In Safe si vive una situazione di confinamento poiché non si può uscire di casa, di isolamento poiché Sister Daisy è lontana da tutti, ma soprattutto di impossibilità poiché il virus (nello spettacolo non si parla volutamente di COVID, si dice la parola virus solo due volte) è un nemico invisibile che non si può fronteggiare ad armi pari.

I numeri della pandemia sono sempre più allarmanti. Come valutate l’ultimo DPCM? Sarebbe stato ipotizzabile secondo voi proseguire con gli spettacoli in piena sicurezza?

I numeri sono sempre più allarmanti anche a causa di un’informazione folle fatta di studi televisivi dove il dibattito viene gestito da una giornalista che ha come ospite un opinionista, un influencer, uno scrittore e un fisico che viene accreditato come unico esperto.

I numeri sono allarmanti perché parla chiunque e nessuno riesce a comprendere la vera natura di questi numeri, tutto ciò crea solo confusione, divisione e allarme. Io sono dell’opinione che in questi casi debba parlare una persona esperta in materia e basta.

Fermo restando che il virus c’è e si propaga velocemente, credo che avremmo potuto continuare con gli spettacoli in totale sicurezza perché abbiamo comprovato di poterlo fare.

I numeri sono dalla parte della nostra categoria. Questo DPCM ha il sapore di presa di posizione, di volontà di chiudere senza ascoltare e vedere chi ha operato bene e chi male. Un solo contagiato da giugno a oggi la dice lunga sugli sforzi economici e umani fatti dai teatri, dalle produzioni, dagli attori e dagli spettatori stessi.

In questi mesi ci siamo ripetuti che sarebbe andato tutto bene; è possibile che nasca qualcosa di buono da una vicenda così drammatica, che ne ereditiamo qualche lezione importante?

Lo spero. Qualcosa di buono dovrà pure succedere dopo un 2020 disastroso su tutti i fronti. Ci dovrà essere una ripresa dopo la crisi, bisogna solo attendere e vedere quando questa avverrà. Certo è che da questa situazione dobbiamo trarre come insegnamento il senso di comunità, dobbiamo smetterla di vivere pensando a noi stessi perché le conseguenze di tutte le nostre azioni si riversano sugli altri. È nostro dovere iniziare a cercare di sviluppare un senso di unione e di appartenenza a un gruppo esteso che opera per uno scopo comune, che sia la ristorazione, il teatro, il commercio o l’insegnamento, si lavora per stessi ma anche per gli altri. Tutti insieme.

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