Death Note: perché la pena di morte è inutile

by Gabriele Rana

“Questo mondo fa schifo”. Quella che potrebbe sembrare la frase di un teenager ribelle, è in realtà l’incipit di una delle più grandi opere del primo decennio del duemila, prodotta nel Paese del Sol Levante: Death Note. Tratto dall’omonimo manga, scritto dal misterioso Tsugumi Ōba e disegnato dal mangaka Takeshi Obata, Death Note è un anime (termine tristemente tradotto nel dizionario boomer: “cartone giapponese”), trasmesso in Italia nel 2008 da MTV e presente attualmente su Netflix, che nel 2017 ha prodotto quella che dalla critica è ritenuta come una dimenticabile trasposizione cinematografica dell’opera.

La trama è molto semplice: Light Yagami è un ragazzo di diciassette anni, il migliore del Giappone, intelligente, affascinante, con una famiglia solida e benestante; ma proprio perché ha tutto, è annoiato dalla vita, troppo monotona e banale per lui, e schifato dalla feccia che infesta il mondo in cui vive. La sua vita cambia quando lo shinigami Ryuk (equivalente nipponico del Cupo Mietitore), anch’egli annoiato dalla monotona e infinita vita nel mondo degli dei della morte, decide di lasciar cadere nel nostro mondo il Death Note, che sarà raccolto casualmente dal protagonista.

Il Death Note è ricco di regole, ma la più importante è: “L’umano il cui nome sarà scritto su questo quaderno morirà”. Light quindi decide di utilizzare questo quaderno per redimere il mondo e amministrare egli stesso la giustizia, diventando così Kira (distorsione giapponese del termine killer), il dio di un nuovo mondo. Ma la dea bendata non si farà attendere e si presenterà da lui nelle sembianze di Elle (o L), l’investigatore privato più bravo del pianeta chiamato dall’Interpol per risolvere il caso Kira. Sia Light che L rappresentano due modi diversi di intendere la Giustizia. Per il primo ha il solo scopo punitivo, impedendo al reo di compiere altri danni attraverso la sua eliminazione. Il secondo invece è molto più conforme all’idea di giustizia odierna e la sua figura, poiché affetta da problemi relazionali che lo inducono a non provare affetto alcuno, è il simbolo di una Díkē asettica. Entrambi però seguono il diktat: “Il fine giustifica i mezzi”.

La serie ci pone diversi interrogativi, il più importante è: “La pena di morte è la pena più congeniale per i crimini efferati?”. Come fa notare Light, ognuno apertamente direbbe di no, ma nel profondo del suo animo condivide il verbo di Kira. E come dargli torto? Quanto spesso ci capita di sentire notizie orribili e di pensare che forse sarebbe meglio tornare alla legge del taglione? Ma fortunatamente la ragione viene in nostro aiuto e con lei grandi pensatori come Cesare Beccaria (1738-1794), il famosissimo filosofo che nell’opera “Dei delitti e delle pene” spiegò come la pena di morte sia “una guerra della nazione al cittadino”, poiché giustificata solo in quanto repellente per crimini futuri commessi da altri, ma ciò non è vero, fa notare Beccaria, perché quel che spaventa della pena è la sua estensione, non la sua intensità. Pensieri contro la pena di morte sono riscontrabili molto prima dell’opera di Cesare Beccaria, ad esempio nella IV Catilinaria, Cicerone traspone il pensiero di Cesare secondo cui la morte è stata data come riposo per la sofferenza e per il lavoro, a differenza dell’ergastolo, dato per punire i crimini nefasti. Il pensiero di Kira è però umano e condivisibile.

E tu useresti mai il Death Note con questo stesso scopo? Attento però perché “per gli umani che hanno usato il quaderno, non esiste né il paradiso né l’inferno”.

Gabriele Rana

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