Marina Cvetaeva, l’invincibile sete di libertà di una poetessa antisovietica

by Michela Conoscitore

Nella vita, in cui così poco possiamo,
a curare la tristezza con la cioccolata
e a ridere in faccia ai passanti.

Le donne per bene, non sono donne: sembrerebbe uno slogan di una femminista contro l’establishment del XXI secolo, invece questa frase è stata pronunciata dalla poetessa russa Marina Cvetaeva, nei primi decenni del secolo scorso. Cosa avrà voluto dire Marina con questa affermazione?

Forse intendeva che le donne che si allineavano, nella sua Russia stalinista, erano serve del regime. Oppure, considerando la sfera privata, la donna, nella sua concezione, doveva essere libera di perseguire le sue aspirazioni e i suoi stimoli, slegandosi dall’immagine millenaria di protettrice del focolare domestico. In fin dei conti, è quel che mise in atto lei, nella sua seppur breve esistenza: andare contro e darsi dei propri principi. Lei non era una donna per bene, e decisamente fiera di non esserlo.

Marina Cvetaeva nasce l’8 ottobre 1892 a Mosca; suo padre era un professore universitario di storia dell’arte, proveniente da una modesta famiglia contadina, mentre la madre, eccellente pianista, fu costretta a sposare il professor Cvetaev alle sue seconde nozze, dovendo dire addio non soltanto alla promettente carriera di pianista ma anche all’amore per un uomo sposato. Marina, quindi, crebbe in un ambiente famigliare ricco di stimoli, tanto che a sei anni scriveva già poesie, e seguì le passioni letterarie della madre, come Puškin e i grandi classici tedeschi e francesi.

Quando la madre si ammalò di tubercolosi, la famiglia girò l’Europa, alla ricerca di climi più consoni a Marija. Per un breve periodo, i Cvetaev furono anche in Italia, a Nervi. La madre ebbe una notevole influenza su Marina, la cui ribellione ad un matrimonio imposto non si assopì mai. Marina e la sorella Anastasija frequentarono collegi in Svizzera e in Germania, perfezionando la conoscenza delle lingue.

La madre Marija morì nel 1906, col dispiacere di non poter vedere le figlie crescere, di cui, invece, godranno “dei cretini qualsiasi”. Marina, affermò in seguito: “Dopo una madre così non mi restava che divenire poeta”. A sedici anni, a Parigi frequentò corsi di letteratura francese alla Sorbona, mentre in patria non riuscì a portare a termine alcun percorso d’istruzione per la sua indisciplinatezza congenita. Diciottenne, pubblica la sua prima raccolta poetica, Album serale, e conosce Sergej Efron, che diventò suo marito. Il rapporto che la legò ad Efron non fu privo di contraddizioni e tradimenti, anche se gli disse: “Ti seguirò come un cagnolino”. Ed effettivamente, Marina mantenne la promessa, perché non si ritenne mai un’infedele, e non abbandonò mai il marito. D’altronde “se baci, allora ami”, e lei non chiedeva ai suoi amanti, uomini e donne (il suo romanzo Sonecka è dedicato al suo grande amore per l’attrice Sofija -Sonecka Gollidej), il contatto fisico, ma quello spirituale, e la fedeltà cieca. Ad uno sei suoi amanti scrisse: “Voglio da Voi, ragazzo, il miracolo. Il miracolo della fiducia, della comprensione, della rinuncia”. Poi, questo fuoco che le bruciava dentro si spegneva. E Sergej era lì.

Dopo la prima raccolta poetica, due anni dopo avrebbe pubblicato Lanterna magica, e poi ancora Da due libri, nel 1913. Ma saranno le opere post Rivoluzione quelle che la consacrarono come poetessa e rappresentante iconica della corrente simbolista russa, come Dopo la Russia, Il poema della montagna e Il poema della fine. Nel frattempo, nascono le due figlie, Ariadna ed Irina, quest’ultima affidata ad un orfanotrofio, poiché lo scoppio della Rivoluzione gettò la famiglia di Marina nella più totale povertà, e Sergej, in contrasto con Stalin, si arruolò nell’Armata Bianca, l’esercito controrivoluzionario. Purtroppo, Irina morì in istituto, e fu uno dei rimpianti più grandi di Marina.

Ricongiuntasi col marito a Praga, dove nacque il terzo figlio, Georgij, si trasferirono in seguito a Parigi dove la poetessa manterrà tutta la famiglia facendo la domestica. La capitale francese, fervente dal punto di vista culturale in quel periodo, ospitava già tanti fuoriusciti russi, come la pittrice Natalia Goncharova, con cui per un breve periodo la Cvetaeva intrattenne un’amicizia. Il periodo parigino fu particolarmente benefico per la sua poesia, poiché potette scrivere molto, oltre a frequentare i salotti letterari. Il marito decise di entrare nei servizi segreti russi, ma qualcosa andò storto e fu costretto a fuggire a Mosca con la figlia Ariadna, dove entrambi furono rinchiusi nei gulag. Marina riuscì a raggiungerli solo due anni dopo, continuando a mendicare un lavoro.

Da sempre antisovietica e continuando fermamente a dichiararlo, Marina trovò soltanto porte chiuse a Mosca. Risale a questo periodo la sua amicizia con due grandi della letteratura mondiale, il poeta austriaco Rainer Maria Rilke, che fu per lei un mentore anche se a distanza, e Boris Pasternak.

Di Rilke, Marina scrisse: “Rilke non è nato né su ordinazione né per ambizione del nostro tempo, ma per essere il suo contrappeso. Le guerre, i macelli, la carne lacerata dalle discordie e Rilke. È per Rilke che il nostro tempo verrà perdonato al mondo… Rilke è necessario al nostro tempo come un sacerdote sul campo di battaglia: per pregare, per questi e per quelli, per loro e per noi: perché vengano illuminati gli ancora vivi e perdonati i caduti”.

Con Pasternak, invece, il legame fu molto più profondo: due anime affini, un vero e proprio amore, anche se di carta. Forse, solo Pasternak riuscì a comprendere nel profondo la Cvetaeva, poiché disse: “La verità è che bisognava leggerla attentamente. Quando lo feci rimasi senza respiro per l’abisso di purezza e forza che si spalancava”. Questo legame con Pasternak, incluso quello che si aggiunse con la poetessa russa Anna Achmatova, non sottrassero Marina al dolore e alle vicissitudini: la figlia Ariadna fu arrestata e inviata al confino, mentre il marito Sergej fu dapprima arrestato dall’Nkvd, imprigionato e poi fucilato nel 1941.

Il mistero sulla sua morte

Rimasta solo col figlio Georgij, Marina fu sfollata ad Elabuga, dove prese in affitto una izba, abitazione tipica dell’entroterra russo, da dei contadini del posto. Il 31 agosto del 1941 la poetessa fu ritrovata impiccata, sul suo corpo varie lettere indirizzate al figlio, e poi a conoscenti a cui raccomandava di occuparsi del suo Georgij. La versione del suicidio, però, ha retto fino al 1991 quando trapelò la notizia che la sorella di Marina, Anastasja avrebbe ricevuto visita da agenti del Kgb, all’indomani del golpe in Russia, che le chiesero di firmare degli atti che mantenessero segreta la documentazione sulla morte della Cvetaeva.

Secondo un alto funzionario del Ministero della Sicurezza, che si nascose dietro l’anonimato, quei documenti svelerebbero che la poetessa sarebbe stata costretta a togliersi la vita. Il giorno prima del suicidio, un agente del Nkvd le avrebbe fatto visita, intimandole di darsi la morte. La motivazione non è chiara, tutt’oggi. Però ci rimane la dichiarazione non solo di libertà, ma anche poetica della Cvetaeva, animata da un’invincibile sete di assoluta immortalità:

Ci sono al mondo i superflui, gli aggiunti, non registrati nell’ambito della visuale. (Che non figurano nei vostri manuali, per cui una fossa da scarico è la casa). Ci sono al mondo i vuoti, i presi a spintoni, quelli che restano muti: letame, chiodo per il vostro orlo di seta! Ne ha ribrezzo il fango sotto le ruote! Ci sono al mondo gli apparenti – invisibili, (il segno: màcula da lebbrosario)! ci sono al mondo i Giobbe, che Giobbe invidierebbe se non fosse che: noi siamo i poeti – e rimiamo con i paria, ma, straripando dalle rive, noi contestiamo Dio alle Dee e la vergine agli Dei!

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