Diario di confine/2

by Enrico Ciccarelli

Come anticipato, il nostro viaggio sulle complesse e molteplici interazioni fra la realtà e l’immaginario, tra il vissuto e il sognato, lascia la Vecchia Europa e si dirige oltre l’Atlantico, in quegli Stati Uniti d’America che hanno in Occidente un’assoluta egemonia nella colonizzazione dei luoghi segreti ove si forma il nostro pensiero collettivo. Inutile dire che è il cinema, e la perfetta macchina del consenso nata a Hollywood, ad avere fatto la maggior parte del lavoro, con una capacità di imporre e ribaltare paradigmi finora insuperata nella storia umana. Così l’epopea del West passa dall’esaltazione dei pionieri, di Custer e dei vari combattenti contro i ferocissimi indiani pellerossa alla rivendicazione delle ragioni di quegli stessi indiani (“Soldato Blu”, “Piccolo grande uomo”) senza alcuna soluzione di continuità stilistica.

Nel Novecento da quelle parti nasce l’idea che il mito, l’epos, l’immaginario, lungi dall’essere oggetto di contemplazione e riflessione siano territori malleabili, forgiabili alle magnifiche sorti e progressive del giovane impero: le fiabe tradotte da Disney in mirabili lungometraggi di cartoni animati vengono edulcorate e depurate da qualsiasi elemento di cupezza o crudeltà: la morte è un fuoriscena, come in Bambi, o un trucco teatrale, come in Lilli e il Vagabondo; il cattivo non è, come nella struttura di tutte le fiabe, la proiezione delle potenze ctonie e infere, ma un malvagio grottesco da prendere in giro, come Crudelia Demon e il gatto Lucifero in Cenerentola.

Sui grandi classici i tycoon di Hollywood non si risparmiano: così i Fratelli Karamazov traducono il tempestoso Dimitri in un Yul Brinner ruvido, ma al fondo buono, e la deportazione in Siberia in una fuga d’amore con la naturalmente bionda Grusenka. Se, avendo visto il dottor Zivago, ritenete che quel tempo ingenuo sia tramontato e che Hollywood abbia imparato la tragedia, date un’occhiata a Troy: scoprirete che Achille uccide Agamennone, che Paride ed Elena (bionda, l’ho già detto?) fuggono insieme dalla città in fiamme (con tanto di Enea adolescente che parte per ignota destinazione).

Non è un atto di dissacrante volgarità: è la tutela dell’happy end come diritto costituzionale. Perché l’opinione pubblica americana è non solo fermamente convinta che le figure dell’immaginario esistano, ma che debbano assolvere a compiti precisi. Quindi, quando si deve girare un nuovo episodio della saga di Superman (“Superman returns”) si deve dar conto del fatto che l’uomo d’acciaio non abbia impedito l’attacco alle torri dell’11 settembre: ed ecco che gli sceneggiatori inventano un’improbabile crisi di identità di Kal-El, lontano e disperso nell’ultimo lustro alla ricerca delle sue radici kriptoniane.

D’altronde l’immaginario statunitense non serve ad esorcizzare l’irruzione del caos, a rappresentare la minaccia del Lato Oscuro. Non è la chimera o il grifone demoniaco posto sulle pareti di Notre-Dame a rappresentare la potenza del Maligno e a sottometterla. È un bastione dei retti costumi, un garante dell’ordine costituito.

La Marvel colorirà di complessità i pensieri dell’Uomo Ragno, le collere di Hulk e le fatiche del miliardario Iron Man, inserendo ricorrenti e crescenti elementi di conflitto fra i supereroi e le istituzioni, ma in principio non era così: il Superuomo nicciano, l’Übermensch, lungi dall’essere l’annuncio e l’araldo di una nuova condizione umana, è una specie di super-sbirro che veglia su anonimi bravi cittadini e persegue altrettanto anonimi cattivi; tant’è vero che, per ovviare alla profonda noia e ripetitività della trama, gli autori hanno dovuto inventare talloni d’Achille assai sofisticati (la kriptonite verde e quella rossa) e cattivi di serie A (dal pelato scienziato Lex Luthor al pirata spaziale Brainiac), peraltro dalle motivazioni altrettanto vacue di quelle del supereroe.

Il caso più clamoroso di rivendicazione e tutela dell’happy end, però, non si trova al cinema, ma in una strip, la celeberrima Little Orphan Annie. La ragazzina dai folti ricci rossi ha campato per 86 anni, dalla prima striscia, pubblicata sul Chicago Tribune nel 1924, fino all’ultima, del 2010, quando il suo primo autore Harold Gray era morto da oltre quarant’anni. Per il pubblico americano, soprattutto per i bambini, la piccola dagli occhi bianchi (per motivi misteriosi Gray non disegnava le pupille, facendo sembrare tutti i suoi personaggi come afflitti da carcinoma papillare della tiroide), cittadina modello, discretamente melensa e profondamente reazionaria, era un idolo indiscusso (il tentativo del Chicago Tribune di sospenderne le pubblicazioni provocò un’autentica sommossa).

Caratterizzata da una filosofia narrativa che prevedeva come i ricchi fossero nella quasi totalità buoni e i poveri frequentemente malvagi, la vicenda di Annie contemplava una vasta serie di tribolazioni, dalla quale l’orfana, specie grazie al suo protettore, il miliardario Oliver Warbucks, riemergeva regolarmente vittoriosa. Tali peripezie si svolgevano con la presenza fissa del cane di Annie, Sandy.

In uno degli snodi del plot Annie perdeva il suo cagnolino, e cercava disperatamente e vanamente di ritrovarlo per più uscite settimanali. Al suo pianto di creatura di carta corrispondeva il pianto reale di centinaia di migliaia di ragazzine e ragazzini nordamericani. Il cui dolore senza ristoro mosse a compassione persino Franklin Delano Roosevelt, che scrisse personalmente una lettera a Gray, pregandolo di far ritrovare ad Annie il cagnolino. Non sapremo mai se e quando l’autore avrebbe fatto riapparire il vagabondo Sandy; sta di fatto che, da bravo cittadino americano, Gray obbedì immediatamente, facendo ricongiungere bambina e cagnolino nel tripudio di un’intera nazione.

La cosa è singolare solo per l’altissima personalità che intervenne: ma in realtà era frequente che gli autori delle soap opera si affidassero a sondaggi per individuare gli sviluppi di trama più graditi al pubblico e scrupolosamente conformarvisi. Una modalità di narrazione democratica e consentanea, parallela al senso di onnipotenza di un popolo che si sentiva supremo sul piano militare (a proposito, Superman e tutti gli altri svolsero un ruolo molto attivo nella propaganda bellica durante il secondo conflitto mondiale), ma anche indiscutibile come modello.

Anche il mito, anche l’immaginario, devono dunque acconciarsi ad asseverare la credenza di Pangloss, di vivere nel migliore dei mondi possibili. Devono essere resi all’uopo efficienti e funzionali. Per cui, essendo poco accattivante la veste verde di Santa Claus, spirito celtico della foresta, lo si vira senza alcun problema al rosso, rendendolo perfetto per pubblicizzare la Coca-Cola. Una società dinamica e sottilmente primitiva come quella statunitense non può perdere tempo in sogni che servano solo a sognare. Al pari dei sognanti, anche i sogni devono fare il loro dovere. L’antipodo assoluto di ciò che succede nelle vastissime terre più a Sud, che saranno l’ultima e conclusiva tappa del nostro viaggio.

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