L’altro, il nemico

by Enrico Ciccarelli

Questo articolo non è dedicato all’analisi sanitaria dei dati della pandemia, men che meno alla valutazione dei provvedimenti messi in campo per contenerla e contrastarla. È un tentativo, della cui barbinità spero di essere perdonato, di valutare politicamente la sua portata e il suo prodotto.

Perché nulla è più politico, storicamente, di un’epidemia, e nulla come un’epidemia attacca l’uomo nella sua caratteristica distintiva: l’essere un animale sociale, un zoon politikon,  come dice Aristotele.

Le grandi catastrofi, siano naturali o di natura antropica come le guerre, producono da sempre effetti ambivalenti: da un lato insufflano nel contesto sociale dosi massicce di rabbia e ferocia (si pensi alla dilagante e terrificante violenza, politica e non, nell’Italia del primo e del secondo dopoguerra); dall’altro, però, determinano un affratellamento e una capacità di comunione che nessun tempo ordinario fa registrare.

Perché, sia pure solo apparentemente, la catastrofe ha una sua natura egualitaria, colpisce in misura equanime il ricco e il povero, l’ignobile e il probo, il giusto e l’iniquo. Funge quindi da grande attenuatore di tutte le sciocchezze più o meno importanti con le quali impegniamo il nostro tempo, delle quali mostra la futile fragilità.

Da questo punto di vista mi sembra magistrale il modo con cui don Lisander Manzoni usa narrativamente lo snodo catartico della Peste. Da buon giansenista, rifiuta a priori lo schema di far morire i cattivi e salvare i buoni (ed è per questo che a Hollywood, che io sappia, non ne hanno mai fatto un film). Anzi, il vilain per eccellenza, don Rodrigo, incontra la stessa sorte del combattente purissimo, Fra Cristoforo.

E se vengono immolati parecchi personaggi discutibili, dal Conte Zio al Conte Attilio all’insopportabile Donna Prassede, viene invece salvato il personaggio più squallido, il tremebondo don Abbondio (ma non l’innocente Perpetua).

La narrazione manzoniana (come più tardi quella di Camus) si distanzia dalla tradizione della pestilenza come segno della collera divina, da placare con penitenze e tridui. Se ne trova oggi un pallido riflesso in quanti (in verità, non senza qualche fondamento) sostituiscono ad Apollo e Geova l’Ecosistema, intento a vendicarsi delle nostre soperchierie e dei nostri abusi.

Questa vicenda di colpe e punizioni è in realtà riflesso antropologico: l’uomo va punito (o pensa di doverlo essere, per la sua hybris, la sua arroganza nell’avere assunto la stazione eretta, nell’essersi cibato del proibito frutto della conoscenza, nell’avere eretto città e torri, nell’avere osato scavalcare i fiumi con i ponti (è per questo che il sacerdote viene chiamato Pontefice) e solcare i mari con le navi.

Ma tornando alla dimensione politica, c’è nell’epidemia qualcosa che ostacola questa spontanea fraternità, che non ci aiuta a sentirci simili nella sventura: perché nell’epidemia l’altro è solo il nemico, il vettore inconsapevole o perfido del contagio. Non è il soccorso; è la minaccia.

Il Coronavirus è politico perché combatte in radice la natura delle nostre società: le polverizza, le rende atomistiche, le annienta. A quel che sembra (ho letto da qualche parte di una “regola dei sei secondi”, limite al di sotto del quale il contagio non si verifica; non so se sia vero, ma serve alla mia metafora) dare un cazzotto ad un altro (o da lui riceverlo) è assai meno pericoloso che abbracciarlo o farsi abbracciare. Per non parlare dei baci d’amore e passione, che sono un autentico Freccia Rossa per il passaggio dei nostri fluidi e dei loro ospiti.

Le prescrizioni contro il contagio sono tanto semplici quanto disumane, cioè contrarie alla nostra natura: niente scambio, niente commercio, niente dimensione collettiva. Impensabile seguire dagli spalti di uno stadio la gara che appassiona o dalle poltrone di un teatro lo spettacolo o il concerto che consola e stimola. Le chiese come edifici fisici sono aperte, ma l’ekklesia, la comunità (la parola indicava l’assemblea del popolo nell’antica Atene) è proibita.

Nei primi tempi abbiamo reagito a queste torsioni innaturali della nostra esistenza con forme mediate di partecipazione: gli inni sui balconi, l’appuntamento catodico con la televisione, i diversi surrogati di relazione offerti da internet. Ma è andata via via emergendo in modo crescente un’altra verità, fatta di rabbia e di invettiva, di indici puntati, di strepiti raggelanti come quelli che il folklore del Latinoamerica attribuisce alla Llorona.

Rispetto al nemico invisibile, subdolo e micidiale, si inquadra nel mirino il vettore, colpevole, se non di dolo, di criminale negligenza. L’infetto che se ne va beatamente in giro a spargere morte e distruzione diventa la forma evidente della minaccia, tanto più perché il misero, l’infame, l’assassino, è sottoposto alla condanna kafkiana di non poterlo sapere.

Nessuno, fra i governanti e i savi, fra gli scienziati e fra i potenti è in grado di sapere chi abbia contagiato chi, chi abbia ucciso chi. Sui cadaveri che a migliaia si accumulano davanti ai nostri occhi non esistono impronte digitali; ciascuno di noi può essere stato, essere in futuro, tornare a essere l’arma del delitto.

Senza cercare complottismi inutili, l’impressione è che questa società smembrata e terrorizzata non dispiaccia al potere, che la minimizzazione e il restringimento dei rapporti sociali gli tornino in qualche modo utili (non è un caso che anche i più ottimisti immaginino sì un rapido ritorno alle attività produttive, ma con un distanziamento e un intorpidimento sociale ed emozionale assai più duraturi).

Un sogno totalitario più o meno inconfessato, più o meno inconsapevole, più o meno realizzabile; ma presente, inquietante, sinistro. Il punto non è quanto durerà la quarantena: il punto è quanto ci metteremo a superare la venefica ipnosi dell’evitarsi, del credere che al mondo ci si salvi da soli.

Quando i chiavistelli virtuali della nostra prigionia si dischiuderanno rischiamo di non aprire gli usci, per non abbandonare il quieto rifugio delle nostre case. Non sarà facile tornare a rivederci con quegli altri che guardavamo con risentimento dai balconi mentre secondo noi creavano pericoli per noi con la loro incoscienza.

Il rischio per tutti noi è quello immaginato da Pedro Salinas nel suo meraviglioso e celebre poemetto di Pedro Salinas “La voce a te dovuta”: tornare “all’ossario immenso di quelli che non sono morti e non hanno più niente da morire nella vita“.

Negli esseri umani c’è molto peggio che il Coronavirus.

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