L’oncologo Maurizio Di Bisceglie: “Pazienti più determinati, per loro la terapia vuol dire vita”. Avere il cancro al tempo del Covid-19

by Daniela Tonti

Maurizio Di Bisceglie è Responsabile della Struttura Semplice Dipartimentale di Oncologia medica ospedaliera integrata di Foggia e Lucera. Amatissimo dai suoi pazienti, non solo per le competenze mediche e la lunga esperienza, è apprezzato soprattutto per l’approccio empatico verso i malati e le loro famiglie, per la disponibilità e per le parole gentili “perché questo mestiere senza umanità non è niente”.

Dall’inizio del 2020 e più precisamente da quando c’è lui presso il  Day Hospital Oncologico dell’Ospedale Lastaria a Lucera (che fa parte del Policlinico Riuniti di Foggia) – un presidio voluto fortemente dal compianto Rocco Laricchiuta – l’attività del Day Hospital di oncologia medica ha registrato un incremento esponenziale dell’utenza. Ma guai a dirgli che i pazienti lo seguono. Anche se che lo seguano è un dato di fatto.

Lo incontriamo a Foggia nella nuova sede del reparto il cui trasferimento è stato accelerato dal covid e dove si effettuano tra i 60 e i 70 trattamenti oncologici-  sia per via endovenosa che per via orale – al giorno. Da tre settimane il dottor Di Bisceglie vive in isolamento per preservare se stesso e i suoi pazienti fragilissimi aumentando al massimo le precauzioni al di fuori del reparto.

Dottore lei teme che le diagnosi di cancro possano essere rallentate da questa situazione pandemica?

La prevenzione è principalmente un fatto culturale e a livello ospedaliero si basa sulla presenza di un team multidisciplinare che agisce in base al tipo di patologia oncologica. A Foggia abbiamo per esempio la breast-unit che segue tutto il percorso della donna affetta da carcinoma della mammella dalla prevenzione alla diagnosi, alla cura, all’assistenza sino all’ultimo momento della vita. E così per altre tipologie di tumori.

In questo momento sono ridotte solo le visite di controllo differibili.

Ci può fare un esempio di situazioni differibili?

Un esempio può essere il caso di una paziente che noi assistiamo in follow-up e che ogni sei-otto mesi si sottopone a controlli. Quando la patologia è indolente e non c’è un problema, è il paziente stesso che preferisce rimandare e aspettare due o tre mesi finché la situazione non sarà migliorata.   

Come l’oncologia si è organizzata rispetto al covid?

Tutta l’attività clinica assistenziale non ha avuto assolutamente nessuna battuta d’arresto, nel senso che noi continuiamo ad erogare tutti i trattamenti oncologici.

Avete adottato misure di controllo extra per gli accessi?

Sì, il percorso del triage prevede che tutti i pazienti oncologici siano contattati telefonicamente il giorno prima della visita e/o trattamento, mettendo in atto così un primo filtro telefonico. Al loro arrivo in reparto si provvede a misurare la temperatura prima della visita o del trattamento e a compilare una scheda sinottica. In questa fase al paziente vengono poste anche alcune domande per delineare un’anamnesi dell’ultimo periodo, per esempio si chiede se ha avuto contatti con persone positive al covid e o se è stato in altre località.

Al termine del trattamento oncologico e prima di andar via ricontrolliamo la temperatura .

Sono preclusi gli accessi agli accompagnatori?

Gli accompagnatori non entrano fatta eccezione per coloro che assistono pazienti disabili.

Ammalarsi per voi operatori vorrebbe dire mettere in pericolo i vostri pazienti e anche la struttura. Sentite un sovraccarico di senso di responsabilità?

E’ opportuno mettere in atto tutte le strategie volte ad evitare il contagio da covid . Nel caso ci fosse la positività di uno del personale medico infermieristico ciò determinerebbe la chiusura della struttura e quindi il blocco dei servizi e delle attività assistenziali.

Si cerca di proteggere tutto il personale medico infermieristico e i nostri pazienti mettendo in atto i controlli che ho illustrato e facendo in modo che ognuno di noi abbia dispositivi di protezione personale come mascherine, sovracamici monouso, guanti che cambiamo più volte nell’arco della giornata.  Stessa cosa per i pazienti. Nessun paziente entra in reparto se non munito di guanti e mascherina e inoltre sono presenti in vari punti del reparto – a disposizione di tutti l’utenza – dei dispenser con soluzione igienizzante per le mani.

Ci sono molti colleghi che hanno attuato misure di cautela ulteriori, isolandosi in casa magari nella stanza dei figli.

È un problema molto serio, al pari degli altri pazienti infettivologici, perché abbiamo difronte pazienti altamente defedati. Infatti i pazienti oncologici sono tutti immunodepressi a causa dei trattamenti oncologici che effettuano e quindi sono pazienti che più degli altri possono andare incontro a delle sovrainfezioni e quindi a contrarre più facilmente il virus.

Devo dire che i nostri sono pazienti educati dal punto di vista oncologico. In caso di febbre contattano l’accettazione  in modo da rinviare il trattamento a data successiva.

È cambiato lo stato psicologico dei suoi pazienti? C’è una sorta di rassegnazione o di paura a venire in ospedale?

Io temevo che la problematica della pandemia potesse creare un ulteriore filtro nel senso che avrebbe potuto determinare un meccanismo che avrebbe portato il pazienti a rinviare il trattamento previsto. E invece così non è stato. Anzi, i pazienti sono diventati più determinati, nell’effettuare il trattamento. Hanno sviluppato una sorta di forza tale per cui per loro la terapia vuol dire vita, vuol dire aggrapparsi di più alla vita e non sono disposti a rinunciarci.

Avrei detto il contrario.

Anche io avrei detto il contrario. E invece noto che i pazienti sono più motivati nell’affrontare la malattia e nell’effettuare i trattamenti oncologici. Evitano di recarsi in ospedale solo i pazienti che fanno controlli di una malattia cronicizzata da tempo e che sono più tranquilli.

Lei è anche a Lucera dall’inizio dell’anno. Com’è la situazione?

A Lucera c’è stato il caso di quei pazienti provenienti da una RSA della provincia però nel nostro reparto non ci sono stati casi. Il Day Hospital di Lucera segue le stesse linee guide e le stesse indicazioni di Foggia. Anche lì si fa tutto il pre-filtraggio e i familiari non entrano in ospedale.

È ampio il bacino d’utenza?

È un servizio che abbraccia tutto il bacino relativo al Subappennino. Oltre al Subappennino ci sono anche molti pazienti di Foggia che preferiscono effettuare le terapie a Lucera sia perché la distanza è minima (18 km) e sia perché è una struttura più piccola e quindi più a misura d’uomo.

Perché c’è lei, la seguono…

No, no. (ride, ndr.)

A Foggia invece vi siete spostati per il covid? Per stare lontano dalle rianimazioni?

No assolutamente. In quest’ottica non esisterebbe un posto sicuro. Eravamo al secondo e terzo piano e logisticamente era poco funzionale perché i pazienti ogni volta, tra sala d’attesa e reparto, dovevano scendere e salire. Adesso invece logisticamente siamo a piano terra dove non ci sono barriere architettoniche, in un plesso onco-ematologico in prossimità della radioterapia e della medicina nucleare che costituiscono nell’insieme il Dipartimento di oncoematologia e radioterapia. Il covid probabilmente ha accelerato questo passaggio.

Lei è molto amato dai suoi pazienti per la grande umanità che la contraddistingue. Che idea si è fatto di questa epidemia, al di là dei dati clinici?

Questa malattia ha sminuito la presunzione di onnipotenza dell’uomo. È un segno che ci dovrebbe far capire che è arrivato il momento di cambiare, che è necessario avere uno spirito sociale, favorire l’aiuto reciproco in una società globalizzata come la nostra e smettere di pensare al profitto o a primeggiare. Non tutti i mali vengono per nuocere e quindi la nostra condizione dovrebbe cambiare in meglio.

Dobbiamo ragionare in maniera diversa e anche i rapporti interpersonali devono cambiare e ciò dovrebbe far riflettere sulla necessità di un approccio più umano e solidale. Mi auguro che questa pandemia possa portare dei miglioramenti.

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