Mario Carli, un sanseverese a Fiume con D’Annunzio

by Fabrizio Simone

L’elenco ufficiale dei legionari fiumani, depositato presso la fondazione del Vittoriale degli italiani nel 1939, annovera 43 volontari provenienti dalla provincia di Foggia tra le fila dell’esercito dannunziano impegnato ad occupare la città croata di Fiume. Il più noto è, senz’ombra di dubbio, Mario Carli, scrittore e poeta futurista di sinistra (nel 1918 fondò insieme a Marinetti l’organo di propaganda del movimento, Roma futurista).

Per Carli, nato a San Severo nel 1888, fu naturale raggiungere D’Annunzio nella città contesa dall’Italia e dal Regno Serbo-Croato-Sloveno, ovvero la futura Jugoslavia, al termine della Prima Guerra Mondiale. Questo capitano degli Arditi (nonché fondatore dell’Associazione degli arditi d’Italia, con annesso giornale, L’Ardito), decorato con la medaglia d’argento e la croce di merito per il suo coraggio sul Monte Grappa, fu tra i primi a lanciare proclami, a tenere comizi per Fiume e la Dalmazia, incitando i suoi connazionali a partire volontari per il Carnaro. Restò a Fiume meno di un anno, dall’ottobre del 1919 alla fine del giugno successivo, fino a quando le sue posizioni estremiste e in linea con l’arditismo non gli inimicarono buona parte dell’entourage dannunziano, fedele alla monarchia sabauda, largamente accettata dalla popolazione fiumana.

Dandy ed anticonformista, in perenne guerra contro la società liberal-borghese, Carli contribuì alla causa fiumana senza imbracciare le armi: fondò l’unico giornale locale destinato a creare scalpore e inquietudini persino tra i filibustieri più scalmanati, La testa di ferro, “libera voce dei legionari”. La testa di ferro debuttò il 1° febbraio 1920 ricevendo l’autorizzazione e il sostegno finanziario del Comandante. Un’autoblindo stilizzata, corredata dal motto “Me ne frego”, fu posizionata sopra la testata per mostrare tutta l’aggressività e l’ostinazione del settimanale. Nell’editoriale del primo numero, l’anonimo scrittore – certamente Carli – affermò con ostinazione un programma tanto combattivo quanto nuovo sul piano prettamente sociale:

“Noi siamo le teste di ferro: coloro che non cedono, che non si lasciano né lusingare né avvilire né addomesticare, che non sanno stanchezza, che non accettano compromessi, che s’infischiano dei tribunali impotenti come la Conferenza della così detta Pace, e delle associazioni a delinquere coma la Lega delle Nazioni, che non intendono calar le brache mai, davanti a nessuno, che il denaro sporco di Cagoia non riescirà mai a comprare, e che daranno Fiume all’Italia e l’Italia a Fiume malgrado e contro la volontà di chicchessia. […] Diremo la nostra parola su tutti gli argomenti e le questioni che ci interessano, costituendoci volta a volta spettatori, interpreti e critici del dramma odierno dei popoli, che non si dividono solo in vincitori e vinti, ma anche in sfruttati e sfruttatori. […] Teniamo a eguale portata di mano la penna e il pugnale, e tra un articolo e l’altro ci divertiamo ad allineare bombe a mano nei cassetti di redazione”.

L’apertura alla sinistra anarchica e ai bolscevichi russi insospettì D’Annunzio. Il Comandante continuò a finanziare il giornale ma ordinò che ciascun numero sarebbe stato stampato solo previa sua autorizzazione. In effetti La testa di ferro, oltre ad essere l’organo non ufficiale del fiumanesimo, finì per raccogliere in torno a sé un’importante fetta di simpatizzanti della Russia leninista. Carli aprì la strada ai suoi collaboratori con l’articolo Il nostro bolscevismo (15 febbraio 1920). Al disprezzo per il socialismo italiano si univa il riconoscimento della rivoluzione operata in Russia da nuove forze politiche, così lontane dalla moderazione «pussista» (dispregiativo col quale veniva indicato il partito socialista italiano – P.U.S. era la sigla del partito ufficiale socialista):

Intanto, il bolscevismo non coincide affatto col socialismo italiano. Prendendo la Russia come modello tipico di rivoluzione sociale, si vede anzitutto che il bolscevismo è stato un movimento, non tanto grettamente espropriatore, quanto rinnovatore, perché ha voluto ricostruire in base a ideali vasti e profondi l’edificio sociale, assurdamente sbilenco sotto il decrepito regime czarista. Inoltre il bolscevismo russo, animato da un potente soffio di misticismo, non si è mosso con quei criterii di pacifismo codardo, che fanno dei cortei proletarii italiani altrettante processioni d’innocenti agnellini […]. Il popolo russo ha saputo anche difendere la sua rivoluzione, e gli eserciti di Lenin si sono battuti, spesso, vittoriosamente contro i bianchi paladini della reazione”.

Carli sognò addirittura l’adozione mondiale del soviet. Prendendo in prestito il modello russo, la vita politica avrebbe tratto giovamento, permettendo anche una migliore ridistribuzione delle risorse per le fasce meno abbienti, avvolte da una miseria materiale e spirituale:

“Il nostro sogno più caro di artisti e di lottatori è sempre stato quello di sollevare la miseria materiale e spirituale delle masse, e se domani avremo modo di sopprimere in loro prima la fame, poi l’ignoranza, potremo dire di aver raggiunto uno degli obiettivi fondamentali di tutta la nostra azione. Non chiediamo di meglio che chiamare accanto alle «élites» anche i rappresentanti del «numero» a partecipare alla vita collettiva, a decidere dei propri interessi e del proprio destino. Il soviet (altra parola-spauracchio per i mosci borghesi di tutti gli Stati) è un prodotto così ragionevole e così utile dei nuovi tempi, ed è già così diffuso, sotto la forma sindacale, negli ambienti amministrativi e industriali, che non si capisce perché non debba entrare senz’altro nella vita politica e militare”.

Celebre il finale, con i propositi di Carli per un’alleanza tra Fiume e Mosca:

Tra Fiume e Mosca c’è forse un oceano di tenebre. Ma indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte fra queste due rive”.

In un secondo articolo, Il piccolo padre bolscevico (7 marzo 1920), Carli difese Lenin, accusato ingiustamente d’essere un “apostolo trasformatosi in despota”. Secondo il direttore de la Testa, “Lenin era un uomo di realtà, un vero masso di realtà rudemente scolpito” e solo un “falso rivoluzionariopoteva rimproverargli d’aver «adoperato le baionette a difesa delle idee”:

Lenin – fino a prova contraria – è un vittorioso. Ha imposto il giovine Stato creato da lui alle aristocratiche e barbute Potenze d’Europa e d’America. Ha aderito a una pace che gli è stata offerta, e ora s’accinge a stringere contatti di commercio con gli Stati che hanno bisogno dei suoi mercati. Noi, ancora una volta, possiamo spregiare sdegnosamente il canagliume ufficialsocialista d’Italia, e tendere la mano con simpatia e speranza alla coraggiosa Repubblica orientale, che ha pagato generosamente di persona la sua furiosa volontà di rinnovamento e al suo Capo geniale e sereno che attende con sorridente ironia i diplomatici podagrosi della vecchia Europa”.

Condannato per possesso di cocaina, Carli convinse l’intera redazione del suo giornale a seguirlo in Italia, assicurando a D’Annunzio fedeltà e solerzia nel propagandare il fiumanesimo dal suo ufficio milanese di piazza Duomo. La testa di ferro non abbandonò D’Annunzio neppure durante il «Natale di sangue», garantendo pubblicazioni fino al marzo 1921: il mutamento dello scenario italiano indusse il suo fondatore a chiudere il giornale, in vista della sua piena adesione al fascismo, compiuta dopo aver abbandonato il futurismo, nonostante i precedenti dissidi con Mussolini, soprattutto inerenti alle aspirazioni politiche di Carli in terra fiumana.  Carli raccontò la sua esperienza nella «Città di Vita» in un volume intitolato Con D’Annunzio a Fiume, utile per comprendere le motivazioni che indussero l’ex ardito al rientro in Italia:

Sapevo di portare nella città giovane, già così fosforescente di bei nomi gloriosi e di personalità singolari, un nuovo elemento di forza per la resistenza e per la vittoria: portavo la mia tempra maschia e decisa di futurista, che vedeva in Fiume un’anticipazione luminosa di avvenire, la mia aggressività gioconda e colorita, lo spirito di una nuova umanità ribelle e fantasiosa, che andava ad aggrapparsi ai margini del Quarnaro per spiccare il più grande volo alla conquista dell’Italia e del mondo. Ma poiché un’impresa così grande non può essere compiuta da dieci uomini, ed è necessario accettare il concorso di un gruppo dirigente che non sempre si può scegliere, ecco che la mia concezione fiumana urtò subito contro gli scogli di ben differenti concezioni. A Fiume, accanto a genialità combattive rivoluzionarie e veggenti come quella del Comandante e di altri tre o quattro, trovai purtroppo innumerevoli elementi della vecchia Italia, della vecchia mentalità tradizionale, che ammetteva il gesto dannunziano senza capirlo e senza volerlo estendere, trovai del carrierismo e del generalismo, dell’esibizionismo e dell’affarismo: tutte cose ben lontane dalla mia concezione rinnovatrice che estendeva la portata del «fatto fiumano» a fenomeno d’interesse mondiale e d’ordine generale”.

Con D’Annunzio a Fiume non è l’unico scritto di Carli inerente all’avventura nella città adriatica. L’ardito sanseverese decise anche di raccontare l’impresa scrivendo l’unico romanzo a sfondo fiumano, Trillirì, uscito nel 1922. Imbastendo un intreccio di verità e finzione, il personaggio principale del romanzo è uno scrittore, Bruno Landeschi, che incarna l’uomo nuovo, libero dalla morale e dai pregiudizi. La sua cooperazione col mondo operaio rivela la voglia di superare la lotta di classe, insita nelle tesi della democrazia futurista, permettendo agli operai di partecipare alla gestione delle imprese.

Trillirì è, insomma, un romanzo politico e a sfondo erotico-sociale: Landeschi ha combattuto la Prima Guerra Mondiale nell’aviazione; ferito e decorato, partecipa agli scontri in piazza contro i socialisti e alla conferenza antinazionalista di Bissolati, ma non prende parte alla fondazione dei fasci di combattimento perché l’autore, in quel periodo, non aveva ancora superato i contrasti con Mussolini e la sua organizzazione. Landeschi vivrà un amore moderno con Teresa, soprannominata Trillirì, a Fiume, sedotto dal “fatto specifico che un artista, un grande poeta, fosse a capo dell’impresa e che quest’impresa fosse una specie di rivincita dello spirito d’avventura, irregolare, irrequieto, insofferente di dogmi, spacciatore di divieti e di luoghi comuni, sullo spirito pedantemente legalitario dei grossi fessi ufficiali, loricati dalle vecchie leggi e dalle decorazioni luccicanti d’inutilità”. Landeschi, anima di sinistra dell’impresa, lascia la città quando capisce che l’azione compiuta a Fiume non sarebbe stata replicata in Italia: si recherà a Milano, proprio come Carli, per compiere una missione per conto del Comandante.

Carli morirà a 47 anni, nel 1935, dopo essere stato console generale prima in Brasile e poi in Grecia. Morirà felicemente monarchico e squadrista, ma sempre fedele ai principi futuristi e con la Capitanata nel cuore (ambienterà il suo ultimo romanzo – L’italiano di Mussolini fu pubblicato da Mondadori e tradotto in tedesco, francese e portoghese – proprio nel Tavoliere, in cui vive il giovane Falco d’Aquilonia, a metà tra superuomo dannunziano e uomo futurista/fascista, impegnato nella battaglia del grano e nella bonifica del territorio).

(In copertina Gerardo Dottori, Un italiano di Mussolini, ritratto aereo di Mario Carli, 1931, olio su tela. Genova, Galleria d’Arte Moderna)

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