«Pensavo fosse uno scherzo. Poi cominciarono gli spari». La strage del Bacardi. Terza Parte

by Gabriele Rana

Il fumo delle sigarette e dei sigari creava una leggera coltre di nebbia nel locale. Il vociare delle persone presenti, gli stappi delle bottiglie di spumante e la musica del pianoforte di Aldo Ciavarella riempivano le orecchie. Mancano pochi minuti alle tre.

La Cassanelli si avvicina il bicchiere alla bocca mentre Manco le cinge le spalle con un braccio. Da uno dei tavoli una ragazza, Caterina D’Antonio, si alza per raggiungere il suo appartamento in vico Corridoio, a cinquanta metri dal locale, e accompagna la sua amica, Maria Di Brisco, che doveva andare in bagno: la D’Antonio fu una dei primi sospettati e arrestati il giorno seguente. Il barista puliva alcuni bicchieri con un panno, e un uomo seduto in un angolo ciccava la sigaretta sul pavimento. Uno scenario, almeno fino a questo momento, degno di un dipinto di Hopper. I sei seduti al tavolo alzano i bicchieri per un brindisi. Si sente il rumore dei vetri che cozzano.

Qualcuno apre la porta con un calcio, facendo un rumore assordante. Entrano in quattro, i volti coperti e le mani armate. Pompeo Rosario Corvino con l’oh, il tipico ruggito foggiano, si lancia ribaltando il tavolo contro i killer. Il suo cadavere, crivellato di colpi, cade per terra in un mare di sangue che crea subito un lago cremisi sul pavimento. Nove colpi gli fracassano il cranio e il torace e gli colpiscono le braccia e le spalle. Giovanni Rollo muore sul colpo colpito due volte alla schiena: probabilmente si era voltato per scappare.

Pietro Piserchia

Leonardo Piserchia si nasconde sotto al tavolo, mentre il fumo delle sigarette ancora annebbia il locale e l’aria fredda dell’esterno entra insieme al piombo dei killer e si mescola alle grida dei presenti. Anche il pianista e il barista si gettano terra, sotto il bancone. Anche per la Cassanelli non vi fu scampo. Forse l’unica vittima innocente di questo bagno di sangue: si trovava sulla traiettoria che puntava all’amato Manco e, per questo, mortalmente colpita da tre proiettili calibro 7.65. Uno alla testa, uno alla spalla, uno al torace. Anche Pietro Piserchia viene colpito tre volte, Manco invece viene colpito al torace, ma riesce a sopravvivere.

Un locale distrutto, morti ammazzati, sangue ovunque, e un fischio incessante nelle orecchie dopo gli assordanti spari al chiuso. Ecco cosa rimane dopo pochi e assurdi minuti, mentre i killer scappano e si sperdono tra le stradine deserte intorno a via Arpi.

Caterina D’Antonio e la sua amica hanno visto entrare gli uomini a volto coperto e, temendo una rapina e sentendo gli spari, sono fuggite a casa.

Poco lontano, nel poco illuminato vicolo Solitario, è parcheggiata una Ritmo diesel: al suo interno c’è una giovane e bella ragazza che attende il fidanzato andato via di corsa insieme a un’altra coppia con cui si erano incontrati prima al Metropoli e poi nella piazza davanti alla Cattedrale. Si chiama Patrizia Caricato. Nessuna macchia penale sulla coscienza, lavorava in una boutique di Ippocampo e faceva uso di fenobarbiturici per calmare i suoi frequenti attacchi epilettici.

Quella notte era stata chiamata verso l’una e mezza dal suo fidanzato dell’epoca, Federico Saviano, per andare insieme al Metropoli. Vide molti dei protagonisti di questa storia, tra vittime, imputati e carnefici. Lei e il suo Federico avevano lasciato la discoteca con l’intenzione di andare a Manfredonia, ma hanno incontrato quella coppia di conoscenti che dalla 126 in cui viaggiava si è spostata sui sedili posteriori della Ritmo diesel di Saviano. Era ferma dalle tre meno dieci minuti in quel vicolo.

Il silenzio era tale che si poteva percepire il rumore di un lampione difettoso che si accendeva e intermittenza, e degli insetti che andavano a sbatterci contro attirati dalla luce. Vide Federico e gli altri correre verso di lei ed entrare trafelati in macchina. “Andiamo via, andiamo via”: il fidanzato era palesemente agitato. Nonostante il freddo, la faccia era madida di sudore e Patrizia nota con stupore che il ragazzo non indossava più la giacca di jeans che aveva avuto addosso per tutta la serata.

Se ne era accorto anche lui perché, con un filo di voce, mentre ingranava con la macchina prima che le candelette si spegnessero, aveva imprecato al ragazzo dietro di lui: “Non ho più la giacca”. E l’altro: “Tranquillo, l’hai lasciata da Marino”. Federico Saviano si gira verso la fidanzata e le intima: “Di questo tu non devi parlarne con nessuno”. Dietro di loro, in quella macchina, sedevano Alessandra Cavaliere e Matteo Monteseno: uno degli esecutori della strage. A quei tempi, Monteseno era un ragazzo di bell’aspetto: camicia e cravatta sgargiante, e un viso perfettamente sbarbato. L’esatto opposto di quello che si presenterà in aula durante il processo bis del 1992 richiedendo una perizia psichiatrica per evitare l’ergastolo. Lui e Saviano lasciarono la Caricato da sola in auto per dirigersi a casa di Marino Ciccone in vico La Porta, dove si incontrarono con Francesco Favia e con il padrone di casa.

Nel processo del ’92, a sei anni di distanza dalla strage, Ciccone affermerà che quella sera in quella casa erano presenti otto persone per il compleanno di sua madre e che era quindi impossibile organizzare quel massacro che stavano per compiere, ma questa tesi portata a sostegno del proprio alibi, rivelata dopo così tanto tempo e dopo altri processi, non venne accolta.

Così come Saviano, anche Favia era un carabiniere. Sulla carta un infiltrato nella mala, in realtà un infiltrato nell’Arma. Entrambi furono i due testi fondamentali per l’accusa al processo, anche se entrambi ritrattarono accusando i loro superiori di averli costretti a fare le loro rivelazioni. Stando alle dichiarazioni di Saviano, dopo che i presenti ebbero preparato i passamontagna, uscirono dall’abitazione lasciando lui, la moglie di Ciccone e la Cavaliere da soli in casa. È Favia a proseguire la narrazione, ma è lacunosa e ricca di imperfezioni. Pronuncia i nomi di Cipullo, di Delli Muti e di Moretti, ma tutti e tre risultarono poi innocenti in Cassazione. Monteseno, Ciccone e Favia si incontrarono con Giosuè Rizzi a piazza Baldassarre, all’entrata del vecchio Cinema Italia, in uno di quei vicoli si trovava la Caricato e lì vennero imbracciate le armi che stavano per macchiarsi del sangue e del delitto di quattro persone.

«Una delle persone che poi avrebbe perso la vita – confida Aldo Ciavarella nell’intervista esclusiva rilasciata a bonculture -mi chiamò chiedendomi di suonare per loro brani di Franco Califano: ero famoso per avere la voce molto simile alla sua. Ho suonato due o tre canzoni. Pian piano il locale si riempì. Da dietro lo spartito non vedevo nulla. A un tratto una ragazza gridò: “Stanno sparando, stanno sparando”. Stavo suonando il pianoforte. Al mio fianco su un pouf era seduto un ragazzo. Doveva aver visto i killer entrare perché si buttò addosso a me. Cademmo sotto il piano e io mi girai verso di lui prendendolo al collo, pensavo fosse uno scherzo. Poi cominciarono gli spari».

L’appuntamento con l’ultima parte di questa ricostruzione è per la prossima settimana.

Giovanni Rollo

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