Lucille Clifton, la poesia afroamericana e uterina delle donne che trovano le parole guardandosi allo specchio

by Giammarco Di Biase

E’ difficile articolare in poche pagine gli ultimi quindici anni di poesia nord-americana attraverso quattro autrici esclusive ed emblematiche delle nuove tendenze. Impresa talmente ardua che non permetterà sicuramente di dare la giusta importanza a tutti i volti e le voci femminili che hanno cantato l’America contemporanea.

Partendo da un concetto di astrazione, ci permettiamo di creare una fisionomia seppur non del tutto completa della vastità di termini, utilizzi e meriti della nuova poesia contemporanea americana (se per contemporaneità e nuove poetiche intendiamo quelle di un arco temporale che va dalla seconda metà del Novecento fino ad i giorni nostri).

Lucille Clifton era una poetessa, scrittrice ed educatrice americana di Buffalo (New York) morta il 13 Febbraio 2010. Finalista per ben tre volte al Premio Pulitzer per la poesia, dal 1979 al 1985 è stata Poetessa Laureata del Maryland, Stato Federato D’America nel Medio Atlantico a cui dipinte, fanno da sfondo coste che abbracciano l’Oceano Atlantico con la sua più grande città Baltimora che ha una lunga storia come porto marittimo. E’ stata, oltre alla tante candidature ai più prestigiosi premi di letteratura americana, vincitrice nel 2000 del National Book Award.

Come altri autori della Black Aesthetic la Clifton ha rotto con la grande tradizione europea e americana scegliendo brevi versi liberi, spesso ritmati, ripetizioni, giochi di parole e allusioni. La selezione di poesie della Clifton pervenutaci in Italia grazie ad un ottima traduzione Einaudi, in maniera non completa, ma non per questo complementare, non rappresenta una prigione linguistica da decifrare.

Con grande pervasività attraversa quella poesia popolare che permette al lettore un approccio libero senza sofisticazioni, cifra simbolica della cultura immersiva e fruibile afroamericana che non solo cerca integrazione jazz, musicale, ricostruendo il formato comprimibile dei temi e della parola nei versi, ma restituisce fluidità alla parola, crea un’inclusione di linguaggio per essere riconosciuta, sentirsi riconosciuta e riconoscersi dall’interno.

Un verbo univoco, privato e universale senza sovrastrutture per comunicare.

Bisognerebbe sentirsi un po’ allora Lucille Clifton, frammentata, diretta, ricca di termini ultra-contemporanei slang provenienti dall’oralità della poesia americana.

La poesia non dovrebbe essere raccontata, asetticamente rilegata in paragrafi parafrasati, dovrebbe essere letta fino in fondo, perché come dice l’autrice nata a Depew, N.Y. nel 1936 da una famiglia povera ma amante di libri “le mie parole si limitano a leggere <<quello che dice lo specchio>>.

 La poesia è un continuum con le esperienze quotidiane che abbracciamo ogni giorno, un prolungamento dello sguardo che si vede riflesso ogni mattina.
Scrivere significa riconoscersi, prima di tutto.

La scrittura è uno strumento pregiudicato dalla nostra routine forse, quel tour de force e quella battaglia che ripetiamo giorno per giorno.
E’ cosi che nasce la poesia di Lucille Clifton, roulette russa di impegni di cui ci carichiamo quotidianamente, la quasi assenza di punteggiatura, mancanza di lettere maiuscole: presuntuose, intaccano la solennità di un giorno come tanti altri. La brevità è alla base di ogni premessa.

Perché certa gente è arrabbiata con me
mi chiedono di ricordare
ma vogliono che io ricordi
i loro ricordi
e io continuo a ricordare
i miei.

Non è un caso che a questi versi poi, si unisca una specifica e spiccata femminilità, una parola doppia, un altro verbo che da popolare e universale penetra nelle profondità per raccontare semanticamente la corporalità di una donna e la ricerca dell’OPEROSITA’ di un corpo che RISCHIA la sterilità e che vieni escluso dalla visione (non paritaria) consumistica e capitalistica della società: la donna come un complesso meccanico di produttività, soggetto anche a malattie con l’allontanamento della giovane età.

Donna che accede al tempo smaltendolo con la fine della giovinezza.
Procede nel tempo, donna, incline alla caduta fisica della carne come una vertigine. Pur sempre donna senza la d maiuscola che acconsente ai suoi cambiamenti posti nello spazio, e che quindi scrive poeticamente del suo utero o della sua ultima mestruazione:

adesso è finita
e mi sento proprio come
quelle nonne che
dopo che la ragazzaccia che erano se n’è andata,
siedono tenendo la sua foto tra le mani
sospirando: non era
bellissima? Non era bellissima?

Per Lucille Clifton, che scrive anche una poesia intitolata Poesia per il mio utero, il corpo non è solo un reagente politico e sociale, non è solo un corpo nero e vecchio. E’ un segno di codifica, un marker di riconoscimento automatico, un “sistema leggero” per sentirsi Donna.

utero
mia impronta insanguinata
mia cucina d’estrogeno
mia nera borsa di desiderio
dove posso andare
scalza
senza di te
dove puoi andare tu
senza di me

È femminilità selvaggia, collegamento essenziale alla sua genesi e alla sua natura.

Lucille Clifton si riallaccia a tutte le “Eva” del mondo, prima della terra e dopo del danno. E’ una femminista convinta, usa letteralmente per le sue parole senza rima la sua fisicità, una wild woman che come le altre poetesse che indagheremo prossimamente, muove la sua poesia andando a capo con uno spostamento del suo braccio, delle sue gambe, del suo utero mancante, delle sue mani rugose.

eva che pensa

qui è un paesaggio selvaggio
fratelli e sorelle che si accoppiano
artiglio e ala
che si palpano l’un l’altro

aspetto
mentre il bipede d’argilla
rumoreggia nel petto
cercando la lingua per

chiamarmi
ma lui è lento
stanotte mentre dorme
sussurrerò nella sua bocca
i nostri nomi

In conclusione, raccontando di Lucille Clifton e della sua poesia lucente e rivoluzionaria che si guarda alla specchio narrandosi e creando note di parole, la definizione di corpo non è essenzialmente ridotta ad un discorso intimo di riflessi o di appartenenza alla natura biblica, bensì è una teorizzazione soprattutto sui suoi contorni di personalità intellettuale nera come dimostra questa fulminante e provocatoria poesia che si chiama miracolosamente il mio sogno sull’essere bianca 

ehi musica ed
io
ma bianca,
i capelli uno svolazzare di
foglie autunnali
che volteggiano sul perfetto
profilo del mio naso,
niente labbra,
niente didietro, ehi
bianca me
e indosso
la storia dei bianchi
ma non c’è futuro
in quei vestiti
allora me li tolgo e
mi sveglio
ballando.


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