“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” e l’estetica da serie senza empatia e senza la lucida discesa agli inferi di una generazione cult

by Giuseppe Procino

“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino segue la storia di sei adolescenti che lottano senza sosta per avverare i loro sogni di felicità e libertà lasciandosi alle spalle genitori, insegnanti e chiunque non li comprenda.”

Sarebbe interessante scoprire il ragionamento alla base dell’ideazione della log line della nuova serie targata Amazon Prime tratta dal libro culto pubblicato nel 1978. L’importanza del romanzo “Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” risiede nella sua capacità di essere fotografia vivida di un determinato contesto e periodo storico. Poche opere sono riuscite a ritrarre in maniera così lucida la discesa negli inferi di una generazione, denunciando in maniera chiara (e senza mezze misure) il degrado di una metropoli (nella seconda metà degli anni settanta) e descrivendo in maniera minuziosa le creature che la popolano.

Il romanzo, o meglio ancora, l’inchiesta giornalistica, si pone come un preciso reportage che partendo dalla testimonianza principalmente di un’unica protagonista minorenne riflette un microcosmo di esseri allo sbando, in cerca di una collocazione all’interno di un sistema frammentato e distorto. In “Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” c’è la voce predominante di Christiane che racconta la sua perdita di qualsiasi punto di riferimento, il senso di smarrimento che prova una tredicenne che è costretta a cambiare continuamente assetto famigliare e che incontra la tossicodipendenza solo perché la condivisione di un vizio (poi una dipendenza) è in grado di costruire relazioni apparentemente stabili. Christiane non sceglie gli stupefacenti, anzi, prova a mantenere le distanze finché non decide di abbandonare ogni inibizione per sentirsi parte di un gruppo, per poter trovare nell’altro un senso di affetto che le appaia come reale e che colmi, a tutti gli effetti, la grande mancanza della sua giovane vita. Con il passare del tempo l’eroina assorbe qualsiasi cosa. Per potersi bucare la tredicenne finisce nell’incubo della prostituzione giovanile. Il sogno (per chi questo romanzo lo ha letto) non è chiaro quale sia e dove si ubichi e neanche la libertà, visto che si sta raccontando la storia di una minorenne e dei suoi amici, schiavi di una dipendenza.

Nel 1981 il regista tedesco Uli Edel traspone per immagini le vicende, in maniera parziale ma sicuramente efficace rispecchiando l’atmosfera cupa e angosciante della pubblicazione e della Berlino prima della caduta del muro. Il film è diventato di culto, complice anche la presenza di David Bowie, colonna sonora delle vicende di Christiane (la giovane protagonista inalerà l’eroina per la prima volta proprio dopo il concerto del Duca Bianco). Vedere oggi quella pellicola è un’esperienza abbastanza forte, leggere il romanzo-inchiesta è invece ancora devastante.

In quelle pagine non c’è colore, non c’è ironia, non c’è speranza soprattutto non c’è un ideale. L’intuizione innovativa (e priva di senso) di questa serie invece, è quella di trasformare le vicende contenute nel libro in una sorta di dramma adolescenziale più leggero e più “cool” snaturandone completamente le intenzioni narrative. Il risultato è una serie che, dietro la pretesa di rendere “Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” una storia trasversale in grado di parlare soprattutto alle nuove generazioni, nasconde una terrificante ricerca del “Pop” ad ogni costo. Questi sono i presupposti di un prodotto pensato male e realizzato anche peggio. Il collegamento tra generazioni si rispecchia in trovate ammiccanti, in una fotografia ultra patinata che non riesce a comunicare le sensazioni che invece sono laceranti sulla pagina scritta. Su tutte la scelta di una colonna sonora decontestualizzata rispetto al periodo durante il quale si svolgono le vicende, che se da un lato crea un trait d’union tra due periodi storici, dall’altro punto di vista non permette un’immersione totale nelle vicende narrate. Il tutto sembra svolgersi in un periodo talmente confuso da sembrare immaginario. Quello che è stato venduto sin dalle prime immagini come uno dei punti di forza di questa serie diviene un punto di debolezza.

La serie così funziona bene solo nei momenti in cui abbandona le tentazioni di voler inseguire i codici della cinematografia e della serialità contemporanei e spinge l’acceleratore sino in fondo, ma sono solo attimi. Quello che manca è una vera empatia narrativa o in ogni caso la capacità di trasmettere delle vere emozioni, l’estetica vince sui contenuti ma soprattutto sulla storia stessa. Fico potremmo dire ma completamente piatto.

Certo, il libro a tratti risuona come una narrazione un po’ troppo moralista, questo è vero, ma dall’altro punto di vista colpisce allo stomaco e lo fa in maniera devastante. La serie invece mantiene la macro trama, lascia in superficie gli episodi più importanti privandoli di una vera filigrana emotiva. La storia di Babette, ad esempio, che è tra le vicende più sconvolgenti del romanzo (ma anche del film dell’81) nella nuova produzione se da un lato approfondisce il contesto di appartenenza della ragazzina, dall’altro lato non crea mai una vera tridimensionalità psicologica. Se la serie avesse un altro titolo, se i protagonisti fossero davvero distaccati dall’universo di Christiane, o semplicemente, se non avete mai letto il romanzo, molto probabilmente non proverete questo senso di fastidio, questo aver trasformato un racconto che non ti lascia scampo in una specie di storiella triste ma colorata sulla Berlino degli anni 70- 80 condita con qualche citazione colta presa dal Trainspotting di Boyle. Viene allora da chiedersi quale sia il senso di questa operazione se non quello meramente commerciale? Vi era davvero la necessità di rispolverare questa storia? Molto probabilmente sì, ma non in questo modo. La storia di Christiane si trasforma così in un racconto che emana sprazzi di solarità nonostante la tematica e finisce per sembrare un prodotto schizofrenico, a tratti anche snervante, proprio a causa di un registro indeciso, vagheggiante. L’unica scelta definita sembra quella di mantenere lo spettatore nella sua confort zone evitando di ferirlo. A nulla serve l’approfondimento sulle vite di ogni personaggio, mettendo in evidenza quanto ognuno di loro sia in fuga da contesti familiari sbilanciati o tossici, il risultato risuona come una paternale contro il divorzio o la procreazione casuale. Sicuramente l’intento voleva essere differente, sicuramente c’è il tentativo di fare confluire il Romanzo di culto attraverso più epoche e generazioni, intrecciando e mixando situazioni e linguaggi, purtroppo per quanto pregno di un’estetica impeccabile lo sparo non si sente e l’unica cosa che funziona sono gli interpreti, tutti eccezionali ma vittime di una scrittura che vuole essere furba ma finisce solo per essere scialba e poco incisiva. Peccato.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.