20 anni di Amélie e del suo altrove irreale e buono. Col suo Favoloso Mondo ha influenzato una generazione

by Antonella Soccio

C’è chi sostiene che Amélie Poulain, la buffa ragazza di Montmartre in una languida Parigi tutta metro e bistrò dai colori sabbiati e seppiati, col suo buonismo, la sua fantasia che sfiora la mania e con la sua stralunata stramberia esibita sia la causa di molta inconcludenza della Generazione X, perduta, single, precaria e compiaciuta a sognare in un monolocale.

Il suo romanticismo surreale, “il suo slancio d’amore e il suo desiderio di aiutare l’umanità intera” sarebbero alla base di tanti fallimenti sentimentali tra coloro che nel 2001, anno d’uscita de Il favoloso mondo di Amélie (Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain), scritto e diretto da Jean-Pierre Jeunet ed interpretato da Audrey Tautou e Mathieu Kassovitz, erano poco più che adolescenti.

20 anni dopo il film è ancora adorabile, ma mostra implacabilmente i segni del tempo e di un’epoca di impeti e passioni tristi che non esistono più. Così come non esiste più quello spirito irriducibilmente anticonformista No Global di cui era permeato il lungometraggio nel mood, nei costumi, nella scelta dei personaggi, nella fantastica colonna sonora composta da Yann Tiersen, fatta di melanconiche filastrocche, ninne nanne, ballate struggenti, carillon dolcissimi, marcette flautate.

Amélie la si ama pazzamente o la si odia con ferocia.

Il film, uscito in Francia il 25 aprile del 2001, ebbe un successo straordinario in tutta Europa, battendo la concorrenza dei kolossal americani e diventando il più visto dell’anno. In Italia debuttò il 25 Gennaio 2002, incassando oltre 8 milioni di euro e classificandosi tra le prime venti posizioni.

5 nomination agli Oscar (tra cui Miglior film straniero e Migliore sceneggiatura originale a Jean-Pierre Jeunet), Il favoloso mondo di Amélie vinse tre European Film Awards, quattro Premi César e due British Academy Film Award e soprattutto lanciò in Francia e sulla scena internazionale l’attrice Audrey Tautou, ribattezzata subito per la sua eleganza e la sua sofisticata bellezza come la nuova Audrey Hupburn e non solo per l’omonimia del nome di battesimo.

Tautou, allora 25enne, era alla sua prima prova importante anche se qualche anno prima in “Sciampiste & Co.” di Tonie Marshall, aveva vinto il premio César come miglior attrice esordiente.

Oggi i vezzi di Amélie resi in maniera eccezionale dall’attrice protagonista con smorfie, un caschetto a scodella e una fisicità esile da elfa, fanno sorridere, o forse siamo semplicemente invecchiate noi, perché non possiamo più vivere in un mondo immaginifico, rifugiandoci nella solitudine di un altrove irreale, facendoci “domande cretine”, chiuse tra la casa, il lavoro da cameriera, un plotone di vicini disadattati, una inventiva al limite sul crinale del patologico e l’amore che ti coglie per caso. 

“Mi piace molto voltarmi nel buio e guardare le facce degli altri spettatori e poi mi piace cogliere quei particolari che nessuno coglierà mai, invece non mi piacciono i vecchi film americani quando il guidatore non guarda la strada…”

Amélie è un film di buoni sentimenti e di piccole cose: i nani, i fiori, la colazione nel caffè di quartiere, le attese al metro.

La ragazza del resto ha piccoli piaceri: come infilare le mani in un sacco di legumi, rompere col cucchiaino la crosta della crème brûlée, far rimbalzare i sassi dal ponte del canale.

La giovane cameriera del Café des 2 Moulins (divenuto nel frattempo una attrazione turistica) dalla fantasia sfrenata apparve subito all’inizio del nuovo secolo e del nuovo millennio come l’eroina normale ideale capace di rendere diversa una vita tediosa e buia. Si può essere speciali, creativi e felici anche con una piccola vita, che sa volare in una dimensione fantastica. La Francia in quegli anni, sulla stessa scia, qualche anno dopo sfornò anche il romanzo cult L’eleganza del riccio, in quel caso la donna comune illuminata dalla cultura è una portinaia di mezza età.

Con Amèlie Jean-Pierre Jeunet narra una fiaba fatata con una voce narrante irriverente che riempie il racconto di ritmo e di digressioni barocche sui particolari della vita minuta e quotidiana della capitale francese avvalendosi di tanto in tanto della rottura occasionale della quarta parete.

Amélie con una certa androginia ribalta il maschile e femminile, il film ha toccato l’anima anche per questo, perché per la prima volta la protagonista è come se non avesse genere, è sessualmente passiva, nonostante poi si innamori del tecnico delle macchinette automatiche per fototessera.

Il film è costellato da una schiera di personaggi della vita di Amélie, interpretati da caratteristi memorabili, da Dominique Pinon nei panni del gelosissimo Joseph a Jamel Debbouze, l’innocente Lucien. Con loro Rufus, Yolande Moreau, Artus de Penguern, Urban Cancelier, Claude Perron, Maurice Bénichou, Isabelle Nanty (l’indimenticabile Georgette), Claire Maurier.

Una nota particolare merita Serge Merlin, l’uomo di vetro, contraltare isolato e chiuso di Amélie, che saprà spronarla, salvando se stesso.

Piaccia o no, Amèlie ha influenzato una generazione, sottolineando che la vita può essere sempre unica e bellissima se la si sa un po’ colorare di sogno, gioco, maschera e finzione.

Il 3 settembre 1973, alle 18, 28 minuti e 32 secondi, una mosca della famiglia dei Calliphoridi, capace di 14.670 battiti d’ali al minuto, plana su rue Saint-Vincent, a Montmartre. Nello stesso momento, in un ristorante all’aperto a due passi dal Moulin de la Galette, il vento si insinua magicamente sotto una tovaglia facendo ballare i bicchieri senza che nessuno se ne accorga. In quell’istante, al quinto piano del 28 dell’Avenue Trudaine, IX Arrondissement, Eugène Koler, di ritorno dal funerale del suo migliore amico, Emile Maginot, ne cancella il nome dalla sua rubrica. Sempre nello stesso momento, uno spermatozoo con il cromosoma X del signor Raphaël Poulain, si stacca dal plotone per raggiungere un ovulo della signora Poulain, nata Amandine Fouet. Nove mesi più tardi, nasce Amélie Poulain.

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