Raymond Chandler sceneggiatore hard-boiled

by Orio Caldiron

Nell’estate del 1943, dopo aver acquistato per Billy Wilder i diritti di Double Indemnity – che l’anno successivo diventerà da noi La fiamma del peccato – la Warner scopre che James M. Cain, l’autore del romanzo a cui vorrebbe farlo sceneggiare, è impegnato. L’alternativa potrebbe essere Raymond Chandler, ma non riescono a trovarlo finché non ci si accorge che abita a West Hollywood, praticamente dietro l’angolo.

Quando Wilder lo incontra resta deluso. Si aspettava un tipo alla Philip Marlowe, un duro sicuro di sé dalla battuta pronta, e invece si trova davanti un cinquantaseienne dall’aria impacciata, la giacca con le toppe ai gomiti e la pipa sempre in bocca, che non ha mai messo piede in uno studio cinematografico. L’inizio della collaborazione è tempestoso. Anche se ostenta l’aplomb del gentleman inglese, Raymond è suscettibile e ombroso come una vecchia zitella, non tollera i modi bruschi del regista che porta il cappello anche in ufficio e telefona in continuazione. Si chiudono nella stanza per lavorare, ma Billy va avanti e indietro nervosamente o si rifugia nella toilette, mentre Raymond si sistema nella poltrona avvolto nel fumo. Secondo Wilder, Ray non ha familiarità con le tecniche della sceneggiatura: «Scrivere un film significa giocare a scacchi, scrivere un romanzo significa disporre le carte per un solitario». Sembra impossibile che, tra un’impennata e un mezzo insulto, dalla loro convivenza forzata – secondo Chandler un’esperienza atroce, in cui però aveva imparato sul mestiere di sceneggiatore tutto quello che c’era da imparare – sia nato un acclamato capolavoro del noir.

Non va meglio neppure il rapporto con Alfred Hitchcock per L’altro uomo (1951), tratto da Stranieri in treno di Patricia Highsmith. Se Raymond non ha mai nascosto il suo disprezzo per Cain, che considera poco più di un pornografo, la storia dell’ammiratore del campione di tennis a cui appena lo incontra propone di uccidergli la moglie se in cambio lui gli ammazza il padre, gli sembra assolutamente assurda. Nessuna intesa è possibile tra il maestro del brivido e il capofila della scuola dei duri.

Quando il regista seduto accanto a lui cerca di trovare un’idea e gli dice «Perché non fare così?», la reazione è: «Ebbene, se lei trova le soluzioni, perché ha bisogno di me?». Soltanto scrivendo la sceneggiatura a casa sua con l’aiuto di una segretaria potrà evitare ogni interferenza. Ma Sir Alfred non esiterà a buttarla nel cestino per passare l’incarico a Czenzi Ormand, un giovane assistente di Ben Hecht che ricomincia daccapo. Nonostante di suo nel film resti quasi soltanto il nome nei titoli di testa, Chandler conserva intatta la sua ammirazione per Hitch: «Quel che mi diverte in lui è la sua maniera di impostare un film mentalmente. Così ti ritrovi a discutere delle riprese che vuole fare piuttosto che della storia in sé. E ogni volta che credi di aver sistemato tutto ti coglie di sorpresa dicendoti che vuole una scena d’amore in cima alo Jefferson Memorial».

Il caso più clamoroso è quello di La dalia azzurra (1946), un film per Alan Ladd che la Paramount lo incarica di scrivere a tamburo battente perché l’attore sarà richiamato entro pochi mesi. Ma Chandler non riesce a trovare il finale per la storia dell’eroico ufficiale della Marina che scopre il tradimento della moglie. L’idea che un suo commilitone ammazzi la fedifraga e poi, per una ferita di guerra, se ne dimentichi completamente, non piace affatto alla Marina degli Stati Uniti. Chandler, in crisi dopo una lunga astinenza, è sicuro di farcela soltanto se riesce a rimanere ubriaco per il tempo necessario a concludere il lavoro.

Il piano che propone allo Studio prevede due Cadillac davanti a casa pronte per prelevare un dottore in caso di bisogno e consegnare di volta in volta le varie parti dello script, sei segretarie a disposizione per dettatura e battitura e un’infermiera per somministrargli le vitamine contro lo stress. Sembrerà incredibile, ma la trovata funziona. Quando il 26 marzo 1959 il maestro dell’hard-boiled school muore di polmonite, sullo schermo il mito di Philip Marlowe gli sopravvive grazie a Humphrey Bogart, l’indimenticabile private eye di Il grande sonno (1946), il cult movie di Howard Hawks che sacrifica il virtuosismo narrativo del romanzo per privilegiare il magnetismo degli attori e le atmosfere misteriose della metropoli.  Negli anni settanta l’icona avrà un ultimo sussulto di vitalità con Robert Mitchum, il cui Marlowe – invecchiato e irriconoscibile – chiude un’epoca nel segno della tenerezza emotiva.    

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