Ennio: il doc capolavoro di Tornatore è una lezione di cinema e musica da non dimenticare

by Livio Costarella

Denso, affettuoso, mistico, concreto, lucido, visionario. Ma anche «divertente e drammatico», come l’ululato del coyote seguito dalla sua nemesi ironica: un misto geniale di ferocia e sentimento, nel selvaggio West de Il buono, il brutto, il cattivo.

Ennio Morricone era proprio così: uomo mite e discreto, fermo e determinato, gran lavoratore e studioso, capace con la sua musica di toccare Dio e svelare miserie e grandezze dell’uomo. Se la morte terrena non può scalfirne l’opera monumentale, il documentario Ennio di Giuseppe Tornatore, proposto in apertura del Bifest 2021 a Bari, nel rinato Kursaal Santalucia, è un omaggio stratosferico al genio del maestro romano. Una lezione di musica e di cinema, più di quanto si possa immaginare. Dobbiamo davvero un ringraziamento enorme a Tornatore, se questo doc (coproduzione tra Italia, Belgio, Cina e Giappone) colpisca al cuore, trafiggendolo.

Intanto perché, al di là della ben nota grandezza di Morricone, si tratta di un’ennesima dichiarazione d’amore per la settima arte di Tornatore stesso. Non a caso le musiche del maestro romano, ma soprattutto l’ottimo montaggio di Massimo Quaglia e Annalisa Schillaci (e la fotografia di Fabio Zamarion e Giancarlo Leggeri) conducono lo spettatore in un viaggio affascinante attorno a ciò che il cinema incarna dalla sua nascita: la rappresentazione di sogno e realtà, mediata da dialoghi e musiche, tecniche di inquadratura, attori, fotografia, luce, paesaggi, azione e sguardi. «La musica è qualsiasi suono che produciamo», dice Morricone citando John Cage. Ma poi aggiunge: «Che non fa parte, nel cinema, della realtà che vediamo», un concetto centrale nell’estetica della sua musica.

A dispetto di ciò che già conoscevamo di Morricone, la carta vincente di Ennio è dunque lo stile del racconto. Corpo e anima del maestro sono fusi in unico salotto, quello di casa sua, dove sono nati i capolavori. E il «gesto» musicale è non solo la scrittura ordinata in partitura, il canticchiare una melodia o il provarla al pianoforte. È anche il movimento del Morricone che dirige sul podio tutti i concerti delle proprie musiche: senza che nessuno si sia mai sognato di far notare che non sia mai stato un vero direttore d’orchestra. Ma la corporeità dell’uomo è fatta di simboli e movimenti: come la ginnastica sul tappeto che vediamo nel curioso inizio, un’esigenza di vita così simile al gesto di un direttore, che dà «corpo» ai suoni. Per questo il film ti cattura dall’inizio alla fine, dall’infanzia del maestro in poi: dal sogno di diventare medico, al padre trombettista che invece lo porta a studiare musica e tromba (che rarità!); sino ai primi concerti realizzati per avere qualcosa da mangiare, gli studi di composizione con Goffredo Petrassi a Santa Cecilia, l’esperienza avanguardista e sperimentale con il gruppo «Nuova Consonanza», la folgorazione di Igor Stravinsky (spiato mentre dirige la Sinfonia dei Salmi).

Il merito del lavoro di Tornatore è mirare, da subito, al concetto di assoluta modernità stilistica di Morricone, che irrompe nei primi arrangiamenti per la musica leggera. Quando intuisce che l’uso e il suono degli oggetti possano essere un elemento vincente nell’ascolto di una canzone (con estrema attenzione all’incisività di un incipit): ecco quindi i guizzi con il Quartetto Cetra, il rotolio di un vero barattolo nell’omonimo brano di Gianni Meccia, le geniali invenzioni per Gianni Morandi. O quelle per Edoardo Vianello, quando in Pinne fucile ed occhiali utilizza macchine da scrivere, bacinelle d’acqua e fischietti. E poi ancora il celebre salto d’ottava vocale che diventa il marchio di fabbrica di Abbronzatissima, o la modulazione crescente di Se telefonando (non solo arrangiata, ma anche composta), uno dei pezzi più belli di sempre di Mina.

Quindi il cinema: l’esordio con Il federale di Luciano Salce, lo pseudonimo Dan Savio con cui firma i primi titoli e la nascita della collaborazione con Sergio Leone, che gli spalancherà, con la «trilogia del dollaro», l’ammirazione dei più grandi autori internazionali. Senza dimenticare tappe fondamentali come I pugni in tasca di Bellocchio, Il deserto dei tartari di Zurlini, Petri, Bertolucci, i fratelli Taviani che canticchiano l’immortale tema di Allonsanfàn. E l’inizio della trentennale amicizia con Tornatore, tra Nuovo Cinema Paradiso, La leggenda del pianista sull’oceano ed altri titoli. Con Leone si arriva addirittura a capolavori epici, con C’era una volta il West (i cui primi venti minuti di soli suoni e rumori sono «musica concreta») e C’era una volta in America, con il timbro del flauto pan che scolpisce per sempre quell’epopea sentimentale. 

Ennio prosegue serrato, tra immagini d’epoca (molte le perle rarissime) e sovrapposizioni tra il parlato di Morricone – che spiega come sono nati molti temi – e i frame dei film stessi. In un tessuto narrativo che commuove più di una volta, lo spettatore e lo stesso Ennio. Poi arriva Il grande cinema internazionale a sancirne la consacrazione, con il cruccio delle nomination all’Oscar rimaste senza statuetta: clamorosa in tal senso l’ingiustizia e la miopia dell’Academy (che ammetterà anni dopo l’errore) per l’Oscar non assegnato nel 1986 alle musiche di Mission. Proprio nel film di Roland Joffé, che non lesina parole bellissime al compositore, Morricone ha raggiunto una delle sue vette più intense, con una musica che si innesta alla perfezione nella vicenda dei gesuiti di metà ‘700, partendo dalla scelta di affidare a un clarinetto il celebre tema di Padre Gabriel. Ma Hollywood si farà poi perdonare, con l’Oscar alla carriera nel 2007, e quello per The Hateful Eight di Tarantino nel 2016.

Non manca il rapporto di Morricone con le grandi voci femminili: da Edda Dell’Orso (protagonista in più di 50 film musicati dal maestro, con la gemma assoluta di C’era una volta il West e gli incredibili vocalizzi di Susanna Rigacci) a Joan Baez, icona americana della musica di protesta e indimenticata cantante in Sacco e Vanzetti di Montaldo, con il brano Here’s to you divenuto un grande inno dei diritti civili.

Tra contributi eccellenti di Bruce Springsteen, Clint Eastwood, Quentin Tarantino, Quincy Jones, Pat Metheny, Hans Zimmer, John Williams e tantissimi altri, l’unico rimpianto di Morricone è stato non aver lavorato con Stanley Kubrick, che lo voleva per Arancia meccanica. «Tradito» da Leone, che disse al regista americano – mentendo – che il compositore era occupato ancora con lui, nel missaggio di Giù la testa.

I segni particolari di Morricone non finiscono qui, in una babele di immagini preziose: spiccano l’immedesimazione dei leitmotiv con i personaggi, il trattamento timbrico degli strumenti, la preparazione della musica su misura per l’inquadratura. Il ritratto che ne vien fuori è di un uomo che conosce a fondo anche il linguaggio cinematografico: persino il genere horror (da Dario Argento a tanti altri) che gli permette di sperimentare nuovi linguaggi. Oltre due ore e mezza di documentario filano lisce sino alla fine, raccontando anche la passione per gli scacchi del maestro e l’accesa spiritualità, senza tralasciare la sua influenza persino nella musica pop, rock, jazz e metal odierna. Infine il riscatto degli ultimi anni, in cui le sue due anime (l’avanguardista di Nuova Consonanza e l’acclamato compositore di musiche per il cinema) trovano finalmente pace e armonia. «La sua è una musica che ti afferra e ti inghiotte», dice Wong-Kar Wai. Lo stesso pensiamo di questo straordinario e definitivo doc come Ennio, che non bisognerà lasciarsi scappare all’uscita in sala.

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