Tempi moderni e la potenza del messaggio di Chaplin, vagabondo nevrotico alla catena di montaggio

by Daniela Tonti

Una storia di umanità in marcia alla ricerca della felicità.
Tempi Moderni

Tempi moderni esce nel 1936 quando il cinema sonoro era già ampiamente affermato.

Eppure Chaplin, uno specialista della pantomima, rifiuta il dialogo. Aveva registrato negli anni moltissimi test, tutti inconcludenti per i suoi standard. Le uniche voci umane che sentiamo nel film sono trasmesse dalla tecnologia in un processo di filtro: il capo che parla ai suoi lavoratori attraverso il suo schermo televisivo, il distributore automatico che si riduce a una voce in un fonografo. Unica eccezione quando Chaplin improvvisa la sua canzone al ristorante in grammelot, una lingua inventata con parole storpiate e messe in fila senza alcun senso.

In Tempi Moderni Charlot è il vagabondo che si scontra con le nevrosi e le difficoltà della catena di montaggio dell’industria e che dopo un esaurimento nervoso viene spedito a rinfoltire la schiera di disoccupati in piena crisi economica. Alla ricerca di un salario e della felicità, al fianco di una bellissima Paulette Goddard, affronterà una serie di disavventure diventate iconiche trasformandosi in cameriere, detenuto e sfidando una guardia notturna nella celebre sequenza dei pattini. 

Il finale (“Che senso ha provarci?”, gli chiede Paulette “Su con la vita, non ti dare per vinta! Ce la caveremo” risponde Charlot) racchiude il senso di una ricerca incompiuta con i due che si incamminano abbracciati verso un futuro incerto, senza felicità e senza lavoro, ma insieme sulle note di Smile.

Dieci anni prima di realizzare Tempi Moderni, Chaplin visitò la fabbrica Ford a Detroit, da cui veniva sfornata un’auto ogni 40 secondi.  Le linee di montaggio della casa americana erano impressionanti e ispirarono il regista per la progettazione dei set per il suo film.

Con questo film Chaplin dimostra ancora una volta ciò che il mondo intero già sapeva: che è il più grande artista dello schermo muto, il maestro del mimo eloquente e il più semplice, essenziale e profondamente emozionante tra gli autori comici. 

È l’introduzione del pathos che Chaplin ha dato ai suoi film a proiettarli in un dimensione che trascende i limiti del genere. Questa idea di pathos avrebbe raggiunto il suo apice in film come Il Monello (1921) in cui adotta un bambino abbandonato o Le luci della città (1931) in cui raccoglie fondi per salvare la vista a una ragazza cieca.

Sebbene questi film possano sembrare eccessivamente sentimentali per gli spettatori moderni, all’epoca erano incredibilmente popolari. E non erano solo popolari, erano anche rivoluzionari. Il cinema esisteva solo dal 1895 ed era spesso ancora vissuto come un’attrazione da baraccone specie nel genere comico che Charlie Chaplin rivoluzionò totalmente.

Nato a Londra il 1889 e morto in Svizzera dove s’era ritirato, dopo un’infanzia misera a vagabonda aveva esordito in teatro in parti secondarie per approdare intorno agli anni Dieci nella compagnia di Fred Karno. La scuola di Karno fu fondamentale per lo sviluppo della sua poetica e per la formazione dell’arte mimica.

Chaplin scava a fondo nel tessuto sociale e non si accontenta di certi aspetti esteriori dell’umanità ma vuole ancorare i personaggi a una visione sociale e a un messaggio di sopravvivenza. Chaplin incarnerà la sofferenza dei diseredati. Sono personaggi poetici. Da Il vagabondo, una storia di solitudine e vita amara a L’evaso i ritratti si fanno sempre più delineati e mettono al centro individui soli contro una società fortemente corrosiva. Un giudizio politico e ideologico che si farà via via sempre più forte.

Chaplin racconta le sue storie procedendo per sintesi e di ogni espressione fornisce il nocciolo consistente: la sua interpretazione è scarnificazione, critica, allusione e suggerimento. È rapidissimo e preciso e ottiene con il cinema quello che mai avrebbe potuto ottenere in teatro dove la messainscena deve sottostare alle leggi della comunicazione verbale.

A partire da Il Monello fino a Giorno di paga, al centro delle sue opere c’è sempre il dramma sentimentale legato sempre più intensamente alla critica alle istituzioni, alla rivolta anarchica.

Non ebbe vita facile. Fu osteggiato in tutti i modi fino a finire nelle terribili trame del maccartismo nella lista nera degli indesiderabili di Hollywood, cioè del movimento anticomunista e che perseguiva le attività antiamericane guidato dal senatore Joseph McCarth.

Accusato di comunismo, una voce sotto la quale spesso si celavano solo repressioni, invidie e maldicenze di stessi colleghi in cerca di appoggio dal governo, trovò una acerrima nemica nella cattivissima Hedda Hopper, la famosa cronista mondana di gossip che non perdonava a Chaplin oltre l’inglesità (cosa mai perdonata a un altro grande autore inglese, Alfred Hitchcock), il suo amore per le donne e per la vita. A Charlie Chaplin fu revocato il visto e fu espulso dagli Stati Uniti mentre era in viaggio in nave con la sua famiglia verso Londra. Fu un colpo durissimo per un convinto pacifista come lui.

Tempi moderni fu definita una satira implacabile del taylorismo. L’adattamento del corpo al processo di produzione industriale introdotta da Taylor e dai suoi discepoli inizialmente offrì spunti interessanti anche agli attori e ai drammaturghi, alla presenza nello spazio scenico negli studi delle avanguardie basti pensare all’attore biomeccanico di Mejerchol’d o alle coreografie di Valentine de Saint-Point, alla ricerca di un nuovo corpo macchina in sintonia con i ritmi di efficienza e lavoro.

Chaplin in Tempi Moderni lavora moltissimo sull’ontologia plastica scorrendo su e giù la grande catena di montaggio in cui gli oggetti inanimati diventano appendici del corpo e lo stesso corpo si rassegna inerte.  A differenza di Buster Keaton o Harold Lloyd che piegano al loro controllo i complessi meccanici e li usano per risolvere i loro film in modo talvolta spettacolare, l’approccio di Chaplin rimane invariato, inerte, rassegnato, accumulando una energia nervosa che si scarica senza produrre nessun beneficio mentale.

E il corpo di Charlot nel film si inserisce in quella che Jean Epstein definì la “nevrastenia fotogenica” di Chaplin, descrivendo i suoi gesti contro le macchine come “le azioni riflesse di una persona stanca e nervosa” quasi prevedendo Tempi Moderni in cui Chaplin afferma la fallibilità cerebrale: il corpo moderno è soggetto a esaurimento nervoso quando l’efficienza richiesta e il livello di stress psicologici sono eccessivi.

Ma qual è l’essenza profonda di Charlot?  L’arte di Charlot sta nel gioco di cavarsela: avvenimenti minimi che producono conseguenze inattese. E il tentativo di dare una risposta a un certo tipo di accadimento.

Cos’è che fa correre Charlot? E’ la domanda che si fece il grande André Bazin rispondendo così:

“La completa mancanza di testardaggine quando il mondo gli oppone una resistenza troppo grande. Cerca allora di aggirare la difficoltà invece di risolverla, una soluzione provvisoria gli basta, come se l’avvenire non esistesse per lui”.

Se il provvisorio gli basta è pur vero che vi contrappone una ingegnosità straordinaria. Nessuna situazione lo lascia mai disarmato. C’è per Charlot una soluzione a tutto benché il mondo, più ancora quello degli oggetti che quello degli uomini non sia fatto per lui. Charlot cade ripetutamente e cade sempre in piedi. Anche per questo la potenza del suo messaggio, libero e pacifista, umano ma fragilissimo, unito all’arte mimica, allo sguardo e alla notoria precisione maniacale dell’autore non tramonterà mai.

Jacques: Vi svelerò un grande segreto. Un trucco degli uomini da tempo immemorabile. Avanti… è ovunque. Ovunque rivolgiate lo sguardo è sempre avanti!
Jacques e il suo padrone, Milan Kundera

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