Stewart Granger, l’eroe senza macchia e senza paura

by Orio Caldiron

Stewart Granger è il nome d’arte di James Lablanche Stewart, nato a Londra il 6 maggio 1913 e morto a Santa Monica, California, il 16 agosto 1993. Figlio di un maggiore dell’esercito e di un’attrice, dopo la laurea in medicina frequenta una scuola di recitazione e intraprende con successo la carriera teatrale prima di passare al cinema.

Negli studi della Gainsborough non ha rivali nel ruolo dell’eroe romantico senza macchia e senza paura alle prese con l’universo a fonti tinte del melodramma popolare. Il suo aspetto atletico e virile, le sue maniere da gentiluomo, le sue pose da avventuriero conquistano il pubblico sin da L’uomo in grigio (1943) di Leslie Arliss, il fortunato prototipo di una serie di mélo in costume che impongono il galante seduttore nel firmamento del divismo britannico.

Scritturato dalla Metro-Goldwyn-Mayer, si trasferisce a Hollywood con Jean Simmons, la seconda moglie. Cappello coloniale con tesa leopardata, sahariana aperta sul petto, cartucciera a tracolla, striature grigie alle tempie, l’intrepido cacciatore di Le miniere di re Salomone (1950) di Compton Bennett e Andrew Marton è irresistibile. Fino a diventare in un gran numero di film il testimonial privilegiato dell’avventura esotica. Sullo sfondo degli scenari naturali esaltati dal colore o dal cinemascope, è cacciatore di pelli in Canada (Inferno bianco), baleniere nei Mari del Sud (I fratelli senza paura), minatore in Colombia (Fuoco verde), cacciatore di bisonti nel West (L’ultima caccia), di tigri in India (La tigre), di elefanti in Africa (L’ultimo safari).

Ma il suo genere d’elezione è il cappa e spada, favorito dall’eleganza dell’aplomb, dalla voce suadente, dal metro e novantuno di statura. Il capolavoro è Scaramouche (1952) di George Sidney dove il generoso avventuriero, per vendicarsi del cinico marchese che gli ha ucciso l’amico, non esita a indossare volta a volta le maschere del rivoluzionario, del girovago, dello spadaccino. Il film deve il suo fascino allo sfarzo delle scenografie e dei costumi, alla leggerezza sopra le righe delle schermaglie, al carattere allegramente sportivo delle esibizioni. L’illusionismo performativo del protagonista, sempre pronto alla battuta ironica come al colpo di fioretto, trionfa nel duello finale di quasi sette minuti, inventivo e dinamico come i balletti del musical di cui riprende la smagliante coreografia. Nel silenzio del teatro si sente solo il tintinnio delle lame, mentre i due avversari rimbalzano dai palchi ai corridoi, dalla platea alle quinte.

La formula non cambia in Il prigioniero di Zenda (1952) di Richard Thorpe, dove è lo spavaldo turista inglese, sosia del re di Ruritania, che prende il posto del sovrano per far fallire il complotto di corte. Si moltiplicano i colpi di scena, ma il clima resta quello ingenuamente irrealistico dell’avventura a briglia sciolta, tra passaggi segreti e duelli all’ultimo sangue. Il covo dei contrabbandieri (1955) di Fritz Lang riserva all’attore il personaggio del gentiluomo più ambiguo del solito che, dietro la facciata rispettabile, è il capo di una banda di contrabbandieri, tra società segrete, medaglioni in codice, tesori misteriosi. Quasi un congedo dal mito dell’eroe, visto attraverso lo sguardo innocente del bambino che sfoglia incantato il libro d’avventura ma non sa fino a che punto può ancora credergli. 

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