Il fascino della Russia Zarista nell’epoca delle piattaforme digitali: The Last Czars e The Romanoff

by Gabriella Longo

Quando lo scorso 3 luglio esce The Last Czars, si pensa che l’intento di Netflix di avvicinare il pubblico occidentale al funesto destino dei Romanov, sia un atto di pregevole coraggio, ancor più se l’accuratezza storica si fissa come suo punto di forza. Indimenticabili Lilli Palmer e Ingrid Bergman, volti di una presunta Anastasia in due versioni cinematografiche, entrambe del ’56 (ce ne saranno molte altre, ovviamente). Ma l’Occidente aveva forse bisogno del prodotto che parlasse al grande pubblico e che, contemporaneamente, restituisse ad esso una Storia degli zar finalmente ripulita dagli usitati stereotipi e dall’alone leggendario.

Sulle piattaforme di streaming, i period drama vanno alla grande: lo conferma il successo di The Crown (vincitrice di due Golden Globe nel 2017), la serie su Elisabetta II d’Inghilterra alla quale The Last Czars viene immediatamente accostata, per essere il primo ambizioso progetto occidentale sulla Russia imperiale. Prodotta dalla britannica Nutopia con l’obiettivo di lanciare un nuovo genere televisivo, il “megadoc”, la serie unisce al dramma storico, immagini di repertorio e interventi di studiosi e storici esperti dei fatti della casa reale, al fine di raccontare fedelmente (o quantomeno, darne l’impressione) nell’arco di sei episodi, l’intero regno di Nicola II, dal momento della sua incoronazione (1894) sino al giorno della sua esecuzione (1918). Grandioso. Ma l’intento si tradisce qualche secondo dopo l’inizio, con la comparsa sullo schermo della scritta 1905 su un’immagine che mostra la Piazza Rossa di Mosca e il mausoleo di Lenin (e Lenin sarebbe morto 20 anni dopo…).

Le incongruenze storiche sono molte e gravi, soprattutto perché supportate da uno stuolo di “addetti ai lavori”, che letteralmente ci mettono la faccia e che svelano la superficialità con la quale gli autori hanno trattato il materiale a loro disposizione. Così The Last Czars resta vittima di quella stessa caratteristica che l’avrebbe resa unica: la scelta del formato. Dunque se da un lato Simon Montefiore (autore del libro The Romanovs: 1613-1918) cerca, assieme al resto degli studiosi, di restituire la complessità della situazione socio-politica che condusse la Russia alla crisi, dall’altra la gestione delle storyline spinge verso la stereotipizzazione e la esemplificazione della vicenda. Rasputin è il solito santone ammaliatore della leggenda, semianalfabeta e dalle divine capacità curative, la cui venuta a palazzo per occuparsi dello Zarevic ammalato di emofilia, viene fatta coincidere col declino della famiglia imperiale nonché con la causa di tutto ciò che accadrà in seguito. E poi c’è la solita ragazza che, anni dopo il massacro, dice di essere Anastasia.

Il castello crolla sulle sue fragili fondamenta, rivelando la profonda difficoltà di ridurre in soli sei episodi una parentesi complessa della storia moderna, rendendola al tempo stesso appetibile per un target quantomai variegato, e perché no, tentando magari di far diventare i personaggi appetibili quanto quelli di Game of Thrones, fra guerre, qualche carneficina e una faccenda intima di tanto in tanto.

Totalmente scevra della pretesa didascalica di The Last Czars diretta senza spessore da Adrian McDowall e Gareth Tunley, era quella di Matthew Weiner (Mad Men), The Romanoffs, uscita su Amazon Prime Video nell’ottobre del 2018. Forse perché non si tratta di un docu-drama, forse perché non c’è alcun intervento di storici, forse perché non siamo agli inizi del XX secolo, forse perché non siamo in Russia… e forse perché non ci sono nemmeno i Romanov. Appoggiandosi ad un cast di richiamo, la serie antologica in otto episodi presenta storie ambientate nel presente, accomunate dal fatto che vi sia uno o più personaggi che si credono discendenti della famiglia degli zar, ma in corpo hanno di russo forse soltanto la vodka. Fortemente criticata per non aver soddisfatto la grande aspettativa dietro ad un progetto di tale portata o semplicemente perché ha avuto la sfortuna di venire dopo Mad Men, The Romanoffs è, paradossalmente, una serie che con la storia non ha proprio niente a che vedere.

Ci sono le vite più o meno infelici di persone con la sindrome di Anastasia, rappresentate nella loro fissità, autoconclusive, in episodi da un’ora ciascuno che si pongono in antitesi con la tendenza al binge watching. Eppure si ritrova una coerenza nel progetto di Weiner (oltre che un’indiscutibile eleganza nelle immagini), che ha forse involontariamente rappresentato proprio l’impossibilità, da parte della televisione contemporanea, di dare voce alla storia dei Romanov. Nell’episodio 3, dallo spiccato carattere metacinematografico, una troupe sta girando una serie sulla famiglia reale russa. La regista (Isabelle Huppert), convinta di avere con essa un antico legame di sangue, non vuole che il suo lavoro sia come gli altri: “È proprio quello di cui la televisione ha bisogno, un altro film storico con dei manichini ben vestiti”, dice ironicamente, sottolineando un dato che non è certo un mistero, considerato quanto emerso a proposito di The Last Czars. Questa affermazione, è seguita poco dopo da un’altra particolarmente significativa: l’attrice che interpreta la zarina Alexandra (Christina Hendricks) ha scoperto che il finale corrisponderà ad un happy ending, che nessuno dei Romanov troverà la morte come vuole la storia; e a questo commenta sardonica: “È uno scherzo? È l’unica cosa che sanno tutti!”, rivelando il profondo gap che al momento esiste fra la televisione occidentale e la ricezione della Storia russa, lungi dall’essere di facile risoluzione. Ancora una volta, dunque, i Romanov si sottraggono alla narrazione contemporanea la quale riesce a restituirne, al momento, soltanto il fascino del mistero.

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