“Lettera a una professoressa” e la profonda convinzione dell’importanza della parola

by Paola Manno

Certe volte penso che mi piacerebbe scrivere una lettera, oppure una mail, a una mia professoressa, a quella persona che ha segnato la mia esperienza scolastica, e insieme la mia vita. Lo penso ancora più spesso in questi giorni difficili in cui gli insegnanti comunicano da mesi con i loro alunni attraverso uno schermo; oggi che davvero gli educatori devono tirar fuori il meglio di se stessi per continuare a trasmettere il messaggio più importante, e cioè che la cultura può salvarti la vita.

Io sono una di quelle persone che è convinta che nella vita di ciascuno, per quanto difficile e ingiusta, a volte l’incontro con una sola persona può rappresentare la sterzata. Una sola persona in mezzo al resto del mondo che non ha creduto in noi, ma che ci dice “ce la puoi fare”, può rappresentare, io credo, il miracolo del cambiamento.

Ne era convinto anche Don Milani che nel 1967 scrisse la famosa “Lettera a una professoressa” che da subito diventò il manifesto di una scuola diversa, più giusta. La “sua” professoressa, quella con la penna rossa in mano, è il simbolo di un sistema educativo che, in quegli anni, cancellava le esigenze, e insieme le potenzialità, dei ragazzi più fragili, e cioè di coloro che non avevano i mezzi per essere seguiti: il famoso ospedale che cura i sani e respinge i malati.

Lorenzo Milani proveniva da una famiglia colta dell’alta borghesia fiorentina e conosceva bene i privilegi della classe alla quale apparteneva. Era tuttavia un uomo pieno di rigore e, ricorda Anna Maria Ortese, anche pieno di “profondissimo disprezzo” verso le ingiustizie. Nel 1943 entrò in seminario e già in quegli anni iniziò a scontrarsi con la mentalità di una Chiesa lontana, a suo avviso, dalla sincerità del Vangelo. Gli screzi continuarono fino al 1954 quando, per punizione, venne mandato a Barbiana.

Per raggiungere il paesino, che contava all’epoca appena un centinaio di abitanti, non c’era nemmeno una strada asfaltata. Qui Don Milani conobbe gli ultimi e a loro dedicò la sua vita. Fondò una scuola che era due stanze e il suo amore per i ragazzi. Per lui quella scuola fu la sua vera religione. A Barbiana si studiava tutti i giorni, tutti insieme. Una scuola senza giudizi, diversa dall’istituzione in cui “tutto diventa voto, e null’altro”. Una scuola frequentata da alunni che non avevano bisogno di conoscere l’alta letteratura, ma piuttosto il contratto dei metalmeccanici perché “lei signora professoressa – scrive Milani- l’ha letto? Non si vergogna? È la vita di mezzo milione di famiglie. Che siete colti ve lo dite da voi. Non c’è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso”. Una scuola lontanissima da quella classista che permetteva solo ai figli dei ricchi di accedere all’educazione superiore, perché i poveri erano costretti ad andare a lavorare “prima di diventare uguali agli altri”. Una scuola che non respingeva, perché “bocciare è come sparare in un cespuglio”.

L’esperienza di Barbiana suscitò da subito innumerevoli critiche, alle quali Milani rispose con parole infuocate e dati che urlavano l’ingiustizia: sui ragazzi persi tra la quinta elementare e la prima media, il 79% era composto da figli di contadini, il 16% da figli di operai e solo l’1,4% dai figli di genitori più abbienti. “Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi”. La lettera è una condanna severa, argomentata con dati frutto di numerose ricerche, è una critica durissima alla scuola selettiva che secondo Milani è un vero e proprio peccato contro Dio e contro gli uomini, anche se “Dio ha difeso i suoi poveri. Voi li volte muti e Lui vi ha fatto ciechi”.

Tuttavia la lettera è anche uno scritto pieno di pensieri d’amore: “Sarebbe un’altra cosa poter dire all’allievo -Senza di te la scuola non sa di nulla”, o “Conoscere i ragazzi dei poveri e amare la politica è un tutt’uno. Non si può amare creature segnate da leggi ingiuste e non voler leggi migliori” e ancora, tra le citazioni più belle, “Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte. (…) Il sapere serve solo per darlo”.

L’insegnamento più prezioso resta però quello legato alla profonda convinzione dell’importanza della parola. Per Don Milani, infatti, solo la lingua rende uguali, perché eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione di tutti. Impadronirsi delle parole è l’unica difesa dei poveri.

Di questo non bisogna mai dimenticarsi, quando si entra in una scuola. Molti insegnanti, da generazioni, si sono confrontati con le parole di questo libro che, secondo Pasolini, era uno “dei più bei libri letto in questi ultimi anni: un libro straordinario, anche per ragioni letterarie. Ciò che in questo libro mi ha entusiasmato è che è l’unico caso in Italia […] in cui ci si trovi davanti a una forza ideale, assoluta, totale, senza compromessi”. Tutti coloro che si occupano di educazione dovrebbero confrontarsi in maniera critica e onesta con il pensiero di Don Milani, per coglierne la forza e la positività, perché il mestiere dell’insegnante è il più bello e il più difficile del mondo.

Così, di fronte ai racconti di quei docenti che, come la professoressa della lettera, si accaniscono contro gli studenti interrogandoli davanti a uno schermo con le braccia alzate o con gli occhi chiusi, penso alla mail che scriverei a quella donna che raccontava in classe che la libertà è accessibile proprio a tutti, e proprio grazie alla parola. L’ho incontrata, quella mia professoressa, qualche mese fa, al cinema. Mi ha chiamata per nome, anche se erano passati 25 anni ed ero una fra mille. Ricordava un tema che avevo scritto a 15 anni, ricordava i nomi dei miei compagni di classe. Le scriverei “grazie per aver creduto in me”, come scriverei “grazie” anche agli altri che ho conosciuto in questi anni e che stanno accompagnando il percorso scolastico dei ragazzi che stanno vivendo questi tempi cupi. Quelli che di fronte alle fragilità ripetono “coraggio”, che è poi la più bella parola d’amore.

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