La storia di N., un incidente dagli esiti paradossali

by Fabrizio Stagnani

Giusto il tempo per un battito di ciglia e la vita cambia, retorica a parte. Giornata con rientro a lavoro, via alle 7pm, un pezzo di focaccia, 8pm, qualche commissione in centro, 9,30pm, si va a trovare degli amici fuori sede, 10pm, e come ogni buona casa di spatriati è sfornita da generi di conforto se non per qualche birra e taralli, loro hanno già avuto la loro frugale cena.

Almeno le birre sono buone, Tennent’s, non si può neanche frignare per il livello dell’ospitalità. Chiacchiere, chiacchiere, 11pm, ed il primo fondo di bottiglia si è visto. Lo stomaco brontola, forse si è sentito! Da un cassetto viene fuori un mazzo di carte napoletane, da uno stipo un pacco di taralli stretto a metà da una molletta. 11,30pm, si stappa un’altra birra e restano le briciole. 12,45am, saluti.          

A raccontare è un bestione, un gorilla su due piedi di un metro e novanta, che se avesse il coraggio di salire la mattina su di una bilancia quella gli direbbe “…oltre i cento!”

A conoscerlo si sa che durante le serate brave, quelle vere, anche al terzo gin lemon sta come una rosa, pienamente nelle sue facoltà intellettive e motorie. Magari è al quarto la soglia dalla quale parte l’occhio un po’ “piscio” con un attimo di sbiascichio. Si, gli piace bere e fare bisboccia, quando si può. Di certo, però, non si sveglia alle sette di mattina per scappare al bar di fiducia per farsi ponce al mandarino o caffè corretti e quanto meno durante la settimana a pranzo tocca un goccio. Insomma non è alcolista. Anche se il buon senso ed anche i medici direbbero già di si.

Di fatto tutto quello che va oltre due calici di vino al dì, massimo, è assolutamente inutile…almeno al fisico, di certo non alle menti dei poeti maledetti, se ce ne sono ancora. Ma tocca dirlo, il livello di “alcolismo del venerdì sera”, anche se non si sta facendo una serata proprio da leoni, in giro è altissimo, dai quattordici sino ai cinquant’anni e oltre. Sembra essere proprio un tipo di alcolismo conclamato, non si sta ad aspettare il primo momento buono per l’ebrezza, ma si sta li ad aspettare, col pensiero fisso, di arrivare al fine settimana per lasciarsi andare. Si, più diluito è, ma a quanto pare sempre alcolismo è.         

All’una di notte in macchina, per arrivare a casa ora, tocca solo andare lisci lisci, dritti dritti, lungo Corso Benedetto Croce e poi Alcide de Gasperi, l’obbiettivo è Carbonara. Una strada da scuola guida, tutta con diritto di precedenza e tre semafori. Magari arrivati alla seconda mediana, se si fosse riusciti ad arrivarci, l’istinto avrebbe fatto svoltare anche le ruote verso i carrozzoni che stanno intorno al Parco 2 Giugno per un paninazzo, e perché no anche un’altra birretta, magari una più leggera Peroni. Daaaaai, non si dovrebbe, mai, ma se non c’è traffico in città, chi resta con la lancetta del tacchimetro precisa precisa sui 50km/h, nessuno.

Radio accesa, primo incrocio, quarto. E bene si, neanche la cintura di sicurezza. Quando si è inconsciamente certi che tutto possa rimanere nella confort zone della biechezza ripetitiva. Tempo che i sistemi parasimpatico e ortosimpatico del nervoso autonomo facciano ricongiungere le palpebre per umettare il corpo oculare, 150 millisecondi, a riaprirle l’asfalto è a meno di sei centimetri al di la del finestrino.

C’è uno stop grosso come un’insegna pubblicitaria su via Pasubio, ma il conducente di una Alfa Romeo nera, un ragazzo stanco appena uscito a quell’ora dal lavoro, ha voluto non ricordarselo. Fragoroso è l’unico aggettivo da attribuire alle due lamiere che si sono compenetrate. Chi aveva il diritto di precedenza ha la macchina adagiata  sul lato sinistro, con il tettuccio che ha accarezzato, diciamo così, quattro macchine li parcheggiate, l’Alfa resta di sguingio, in mezzo alla strada a seguito della sculata data dall’impatto.

Nell’auto ribaltata, ancora va la radio, inizia lo sconcerto, sale una puzza di bruciato, il timore, una volta capito che la parola chiave della serata sarebbe stata “incidente”, è che si stia per rimanere incastrati nei rottami mentre la macchina va in fiamme. Solo dopo si capirà che era l’odore dell’esplosivo che fa scattare l’airbag. Ricognizione, sembra che funzionino tutte le articolazioni. Pur se l’agilità insita nel soggetto in causa non è congenita, l’adrenalina da la forza di uscire miracolosamente dallo sportello destro che più che altro ora sembra il portellone di un sottomarino.

Scende l’adrenalina, sale l’umanesimo. Istintivo un abbraccio fra i due collisi. Così incontrollabile, come se si fosse amici di vecchia data che a non rivedersi sono passati cinque anni. Si è vivi, integri, senza perdita di alcun fluido vitale. Poi, però, a disperdersi sono le lacrime. Arriva la consapevolezza e pure l’ambulanza con tanto di pattuglia dei vigili urbani. “Soffia qua!”. O,6, 0,1 sopra il limite consentito, zero virgola uno.

La legge è legge, anche se resta inspiegabile come due birre nello stomaco vuoto, se non per 4 tarallini, di un colosso possano dare questo risultato. E sopratutto resta inspiegabile come delle persone, tutori dell’ordine pubblico e della sanità, possano aver negato un sorso d’acqua a due mani che come foglie tremavano all’idea d’esser portate via dal vento. Un sorso che forse, oltre a confortare l’animo, avrebbe cancellato quello zero virgola uno al terzo insistente saggio.      

Da li in poi il vero calvario, sequestrato dalla scena del “crimine” sui due sedili posteriori di una volante, l’arrivo in comando, altri saggi che continuavano ad evidenziare una colpa di fatto poi non così grave. Nei tre anni e mezzo a seguire, otto mesi senza patente; multa; rottamazione del veicolo; tre cicli di analisi del sangue (per il protagonista già pena massima); guai con l’assicurazione; percorso di recupero al SERT con tanto di psicologi che si addormentavano dall’altra parte della scrivania mentre si compilava il paradossale test a risposta multipla somministrato; causa per reato penale; relativi rischi di interferenza con il contratto con l’impiego pubblico; avvocati da pagare; affidamento al UEPE, l’Unità d’esecuzione penale esterna; assegnazione ad una assistente sociale, la quale già ai primi incontri …con tutto il rispetto… si stupiva che a differenza di tutta l’altra utenza soggetto assegnatole non faticava ad azzeccare i congiuntivi; la condanna…6, sei, mesi ai servizi socialmente utili, una messa alla prova durante la quale si deve scontare il proprio debito con la società, e giusto per poter dire “oltre il danno, la beffa”, una donazione “spontanea” ad un’associazione di volontariato pur se chi a subire tutto questo è attivamente nel terzo settore da oltre dieci anni.         

L’alternativa alla messa alla prova sarebbero stati dodici giorni di galera, che forse, se non per la grande opportunità data dal UEPE di rimanere con il casellario giudiziario pulito senza il rischio di andare a perdere il lavoro, sarebbero stati meglio. Sei mesi durissimi, per carità accolto in una struttura anch’essa pubblica con uno staff dotato di una sensibilità oltre il legale …quella si, ma duri. Ore di lavoro regolari più tutto il tempo che rimane occupato da quest’altro improrogabile impegno. Salta tutto nella vita, se no che pena sarebbe.

Un libro ci vorrebbe per raccontarli quei sei mesi. Così come a Galileo sarà sembrata fuori luogo l’amputazione del suo dito dalle lame della chiesa, chi ha passato tutto questo è convinto, si che forse era giunto il momento di darsi una regolata, ma anche che lo scotto sia stato eccessivo, ma sopratutto che sia stato da esempio per tante persone a cui viene raccontata la vicenda davanti a due birre e quattro tarallini.    

S.N.F.

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