In ricordo del medico 110. Ciao Fabio!

by Maria Teresa Valente

C’era una volta un anziano signore che raccontò al suo nipotino, che non aveva voglia di indossare la mascherina, la meravigliosa favola di quella lontana primavera 2020 in cui i medici, indossando le mascherine, divennero supereroi e sconfissero un terribile virus. Il racconto è sulla pagina fb di Fabio Rubino e leggendolo sale la commozione, perché Fabio è un medico, anzi lo era, ma indossare la mascherina non gli è servito a sconfiggere il virus, ma un eroe lo è diventato ugualmente.

160 sono i medici in prima linea morti per il Coronavirus. Sono solo numeri sciorinati nei tg finché improvvisamente non si materializzano con nomi e volti e ti rendi conto del carico di umana tragedia che portano dietro. Numeri sì, ma dietro i quali si celano esseri umani con desideri, emozioni, paure e sogni, che fino ad un attimo prima dell’emergenza avevano ‘semplicemente’ scelto il mestiere di medico, ma che mai avrebbero immaginato di divenire dei martiri per la loro scelta.

Un mese fa, il 12 aprile 2020, nella domenica di Pasqua, uno di questi ‘numeri’, il 110, ha abbandonato le fredde statistiche ed ha colpito al cuore la città di Manfredonia. Quel medico era proprio Fabio Rubino ed aveva 55 anni. Da due anni aveva assunto l’incarico di primario delle cure palliative di Morbegno, Sondrio, Sondalo e Chiavenna ed era conosciuto e stimato nel milanese ed in Brianza.

“Quando una persona la conosci, ci hai vissuto insieme, hai condiviso con lui momenti indimenticabili della tua vita, è diverso. Ti fa avere la consapevolezza che la malattia non è qualcosa che riguarda solo gli altri, ma anche te stesso, e te ne fa comprendere meglio la gravità, la portata devastante. Poi te la fa detestare ancora di più, perché non ha cambiato solo il tuo vivere quotidiano, ti ha strappato via qualcosa che non potrai più riavere”. A parlare è Matteo Borgia, giornalista e scrittore, che ricorda l’amico di una vita.

“È stato uno strano scherzo del destino perdere Fabio il giorno di Pasqua, la festa di cui ho i ricordi più vivi con lui. Non abbiamo potuto celebrare degnamente neppure il suo funerale, salutarlo per l’ultima volta, ricevere la consolazione di una preghiera collettiva per elaborare il lutto. Proprio per Fabio, che ricordo come un uomo dalla grande fede”, racconta con commozione. 

Fabio Rubino aveva lavorato all’ospedale Niguarda, dove si è spento, come dirigente medico in Anestesia e Rianimazione, sua specialità. Poi si era dedicato alle cure palliative per rendere meno doloroso l’ultimo tratto di strada dei malati terminali. Era un professionista con un’incredibile sensibilità e sulla sua pagina fb piovono a decine i messaggi dei pazienti che si sentono ‘orfani’ di quell’uomo che aveva saputo ridare significato e luce alle loro vite. Uno tsunami d’amore che a Manfredonia ha travolto e meravigliato la famiglia di Fabio.

Quando si è affacciato in Lombardia il terribile virus, Fabio non ha esitato a dare la sua disponibilità per andare in trincea. Un destino beffardo per lui che ha vissuto sempre defilato e senza mai godere sotto i riflettori dei meriti conquistati sul campo, quello di aver scelto di essere in prima linea proprio contro il nemico che gli ha tolto la vita.

“Entrambi figli dei mitici anni Sessanta, eravamo amici e facevamo parte di quella che un tempo si chiamava comitiva. Eravamo una banda di matti, come tutti gli adolescenti. Ci piaceva ridere e scherzare, divertirci in tutti i modi possibili, spesso in maniera chiassosa, qualche volta superavamo pure la misura. Fabio no, lui era una persona estremamente equilibrata, era calmo, sempre gentile, quasi serafico. Non credo di averlo mai sentito parlare in dialetto, e non perché non lo conoscesse bene, lui era sipontino doc. Credo fosse una forma di educazione, la sua. Amava la musica, per tradizione di famiglia, le note musicali gli scorrevano nel sangue assieme ai globuli rossi. Sarebbe potuto diventare professore d’orchestra tranquillamente, ma lui aveva scelto la medicina fin da ragazzo, era quello il suo talento”, racconta Matteo Borgia.

Dopo il liceo, la diaspora della comitiva. Tutti partirono per l’università, e quasi tutti restarono fuori a lavorare, dopo la laurea. Lo stesso avvenne per Fabio. “I primi anni continuammo a vederci d’estate, al tempo delle ferie, poi pian piano sempre meno. Per molto tempo abbiamo continuato a frequentarci in occasione della pasquetta, una specie di ritrovo collettivo. Bosco Quarto, Macchia, la Montagna, erano i nostri luoghi preferiti”.

Quando sei ragazzo, pensi che quei momenti non termineranno mai e vivi come se non ci fosse un domani. Invece poi accade che gli anni passano e la vita prende il sopravvento. “Ultimamente ci incontravamo solo ai funerali e nelle feste comandate, Pasqua e Natale, principalmente. L’ultima volta che ho visto Fabio è stato un fugace incontro. Gli feci la solita domanda, il che-te-ne-fai  di circostanza, e lui con la sua solita modestia mi disse che lavorava in Lombardia. In realtà era primario, insegnava all’Università ed era considerato un luminare nel suo campo”.

“Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo della tua vita, perché ogni giorno della vita merita di essere vissuto nel miglior modo possibile”. Anche quando sei un malato terminale. Era questo il fondamento del suo lavoro e della sua quotidianità ed era il messaggio che portava ai suoi pazienti e che insegnava ai colleghi. Ovunque ha lasciato un vuoto immenso, e dopo aver vissuto un’intera vita cercando di fare il meno rumore possibile, è andato via provocando un gran fracasso di emozioni.

“Immagino, la scena. Lui che arriva in paradiso e tutti i malati che ha accompagnato al trapasso in piedi che applaudono, lo ringraziano e si spostano per farlo passare. E lui tra due ali di angeli che, imbarazzatissimo, avanza, con la sua solita calma”, dice Matteo Borgia. “Arrossendo, cercherà di giustificare le sue debolezze terrene, ma San Pietro gli batterà la mano sulla spalla e gli dirà: Muoviti, so già tutto, cammina! Qui di medici non abbiamo bisogno, però un buon musicista nel coro degli angeli ci può far comodo…”

Per Matteo e gli amici di una vita il dolore è immenso. Non ci saranno più scampagnate insieme a cantare strimpellando la chitarra né serate a ridere di niente, ma resterà per sempre il ricordo di un eroe con la mascherina morto per sconfiggere un terribile nemico.

Ciao Fabio!

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