La lezione di Peppino De Filippo con Enzo Decaro: “Essere felici è un dovere”

by Fabrizio Simone

Di Peppino De Filippo conosciamo benissimo il talento (chi non ricorda almeno uno dei 17 film girati in coppia con Totò o l’indimenticabile Pappagone?), ma non la produzione teatrale. Peppino De Filippo ha scritto, infatti, più di 40 lavori tra commedie e farse, ma si tratta di testi ormai introvabili e disponibili solo attraverso i circuiti dell’usato: furono affidati all’editore napoletano Alberto Marotta e da quasi quarant’anni sono letteralmente spariti dal mercato editoriale.  Una di queste commedie, Non è vero… ma ci credo, è stata messa in scena il 10 dicembre, presso il Teatro Giordano di Foggia, dalla compagnia del compianto Luigi De Filippo, “I due della città del sole”, con la regia di Leo Muscato.

La commedia, divertentissima e dal sapore pirandelliano- Peppino De Filippo amava confrontarsi con i grandi drammaturghi- non ha bisogno di suscitare il riso ricorrendo alla volgarità. I tre atti si svolgono nella Napoli degli anni ’80, anche se l’autore, scrivendoli nel ’42, aveva spostato la scena di un decennio: non devono stupirci, quindi, la presenza sul palco di una macchina da scrivere e le diverse invocazioni a Maradona. Davvero singolare il protagonista: l’imprenditore Gervasio Savastano (nessuna parentela col boss di Gomorra) – interpretato da un magnifico Enzo Decaro – è convinto che la superstizione sia “una scienza esatta” e crede d’essere perseguitato dalla iettatura. È inevitabile, allora, il ricorso a tutta una serie di pratiche per combattere la sfortuna: il 17 di ogni mese, soprattutto se cade di venerdì, bisogna evitare di prendere appuntamenti di una certa rilevanza, ogni stanza della propria abitazione deve essere cosparsa dal sale e occorre lavarsi le mani con tre saponi diversi. Se vi imbattete in una donna con la gobba sputate tre volte sulla vostra spalla sinistra, dato che “lo sputo è collegato all’animo perché aiuta il rito propiziatorio”.  Naturalmente anche i gatti neri rappresentano un problema da risolvere: il povero portinaio dell’azienda di Savastano dovrà catturare e allontanare il gattino che si aggira con arroganza nei pressi dello stabile se vorrà conservare il posto di lavoro.

Vivere con un uomo così non dev’essere facile. Lo sanno bene Teresa Savastano, una splendida Lucianna De Falco col suo marcato accento napoletano, e Rosina Savastano (Fabiana Russo), rispettivamente moglie e figlia del protagonista, a cui regalano persino un pigiama decorato con corni e ferri di cavallo (ma i classici cornicelli portafortuna vengono agitati in scena più volte da Savastano, oltre a vivaci sforbiciate, in un rituale altamente comico). E gli stessi dipendenti devono temere la follia e i capricci del loro direttore. Una prova è offerta dal ragioniere Belisario Malvurio (Massimo Pagano), licenziato dopo 4 anni perché ritenuto iettatore e artefice di ogni calamità: del resto al suo arrivo gli orologi non funzionano più (compreso quello di Savastano), improvvisamente il sole viene sostituito da una pioggia carica di lampi e tuoni (Malvurio prova a difendersi attribuendo la colpa a marzo, pazzerello per antonomasia) e la nuova macchina aziendale ha un guasto inspiegabile. E siccome tre indizi fanno una prova (Agatha Christie docet), Malvurio e famiglia (moglie e due figli) possono anche morire di fame. Al suo posto, però, viene assunto un giovane gobbo alla modica cifra di 2000 mila lire al mese più straordinari. La fortuna ha un prezzo elevato, si sa, e dopo l’assunzione tutto torna regolare nell’azienda di Savastano.

In quest’opera De Filippo non solo mette alla berlina uno dei tratti fondamentali dello spirito napoletano (l’ossessione per la iella), ma insegna al pubblico che la felicità personale è una cosa seria. Savastano ordina a sua figlia di interrompere la relazione con un giovane scalognato, gettandola tra le braccia del suo nuovo dipendente, il gobbo Alberto Sammaria, un bravissimo Giuseppe Brunetti  e ieri era anche il suo compleanno, innamorato della ragazza. Ma la gobba non esiste, proprio come il giovane scalognato: durante il matrimonio si scoprirà che la gobba è artificiale e che Sammaria è lo stesso ragazzo di cui la giovane Rosina s’era invaghita in precedenza. Savastano non può che rimanere di stucco e, al tempo stesso, lanciare un sospiro di sollievo (temeva che i suoi nipotini nascessero deformi): i nostri occhi, spesso poco allenati, non vedono sempre ciò che appare dinanzi a noi, intrappolati in sciocche convenzioni sociali, che ci costringono a sopprimere desideri e sentimenti in virtù di tradizioni e soprattutto in nome di una blanda rispettabilità (la disperata ricerca dell’onore e della stima altrui possono condurre l’uomo all’instabilità). Assecondare le scelte degli altri è il modo più semplice per passeggiare sul sentiero dell’infelicità.

Ogni atto è terminato tra fragorosissimi applausi e non sono mancati apprezzamenti nel corso dei singoli atti (innumerevoli le risate). Inoltre l’ingresso di Enzo Decaro, nei minuti iniziali, è stato salutato con un’acclamazione durata qualche minuto. Un’ovazione lunga più di dieci minuti ha siglato il definitivo successo dello spettacolo. Si replica stasera. Si spera in un pubblico più numeroso, erano presenti meno di duecento persone. La commedia merita, il cast anche.

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