Cosa resterà di Sanremo 70?

by Nicola Signorile

Scrivo questo pezzo poche ore dopo aver assistito a uno dei siparietti più divertenti, e al tempo stesso deprimenti, forse dell’intera storia del festival di Sanremo. Morgan che cambia il testo della sua canzone in gara per prendersela con Bugo, il quale, seccato, va via dal palco dell’Ariston causando la squalifica di una coppia che più improbabile non avrebbe potuto essere.

L’uno esplosivo, decadente, vulcanico; l’altro catatonico, assente, sempre con la faccia di chi si è appena risvegliato da un lungo sonno e non ha idea di come sia arrivato lì. Se si parla di puro talento, pochi cantanti in gara sono paragonabili a Marco Castoldi e Cristian Bugatti, due che hanno macinato palchi di ogni genere, cantato e suonato ovunque, scritto canzoni che hanno segnato la musica alternativa italiana. A Sanremo non poteva che finire così.

Cosa resterà della 70esima edizione del festival della canzone italiana? Lo spettacolo, ci perdonerà Amadeus, è molto deludente. Noioso, oceanico, poco o mal scritto. Una valanga di ospiti, non tutti proprio all’altezza della situazione (che senso hanno superospiti italiani che già vediamo in tutti gli show televisivi durante l’anno, come Emma, Gigi D’Alessio, Massimo Ranieri e compagnia cantante?), ammonticchiati qua e là nel bel mezzo di una gara che, malgrado i continui osanna del conduttore-direttore artistico “le bellissime 24 canzoni”, non è proprio al centro di tutto. No, Ama, non sono tutte bellissime le canzoni e dell’ennesima reunion di Albano e Romina avremmo fatto volentieri a meno. L’esecuzione del brano scritto da Malgioglio per i due tocca vette di trash inarrivabili.

A mancare, allo show, è proprio una vera direzione artistica. Un Fiorello molesto e per una volta poco efficace, Tiziano Ferro si salva solo quando canta la sua musica, sfigurando davanti ad Almeno tu nell’universo e all’immenso talento di Mia Martini. Tiziano, ti si vuole tutti bene, ma ad emozionarsi per le canzoni che canti, prima di tutto dovrebbe essere chi ti ascolta, il pubblico.

Roberto Benigni itera se stesso all’infinito, un lontanissimo ricordo dell’iconoclasta dissacrante che fu. Steso un velo pietoso sulle pretestuose polemiche pre-Sanremo, questo è un festival retorico, infarcito di monologhi anti-qualcosa (da salvare solo Rula Jebreal e il suo grido di dolore sentito e ben scritto), in cui domina il perbenismo dell’Italietta borghese che nasconde le magagne sotto il tappeto. Palesi e metodici i tentativi di trascinare di peso un pubblico diverso davanti alla tv, strizzando l’occhio ai più giovani, attraverso gli ospiti, Ghali su tutti, e ai milioni di follower di sportivi e dintorni, attraverso le presenze femminili, Leotta, Francesca Sofia Novello e Georgina Rodriguez, compagne di campioni seguitissimi come Cristiano Ronaldo e Valentino Rossi.

Ecco come circondarsi di donne (vallette si può ancora dire?) e pensare di valorizzarle inserendo il momento: fai vedere cosa sai fare, un po’ come quando da piccoli ci chiedevano di recitare la poesia che avevamo imparato a scuola. E così Diletta ci parla della nonna e della bellezza, bah, Emma D’Aquino dei giornalisti perseguitati, Laura Chimenti dei propri figli e dell’essere mamma (andate al cinema a vedere Figli piuttosto!), Georgina balla il tango e Alketa Vejsiu si lancia in un inno all’Italia vista dall’Albania. Sia ben chiaro, non si mettono in discussione i contenuti, spesso cruciali, scottanti.

Si contestano le modalità scelte per parlarne, sempre retoriche, pompose, banali. Qualcuno dirà: questo è Sanremo. Mi permetto di non essere d’accordo, si può fare un passo avanti, dare un colpo di acceleratore in direzione 2020. Il pubblico è pronto, gli autori del festival molto molto meno, a quanto sembra.

Non lo sono anche molti degli artisti in gara, nati vecchi pur se anagraficamente molto giovani. A partire proprio dalle “Nuove” Proposte, categoria vinta da Leo Gassman. So che cosa state pensando: ha vinto solo grazie al suo cognome!. Di sicuro Leo è già molto noto, essendo figlio e nipote di e avendo partecipato all’ultima edizione di X Factor, ha una bella voce, canta bene, ma canta vecchio come del resto la teenager Tecla, arrivata in finale con lui.

I migliori restano al palo: i frizzanti Eugenio in via di Gioia e Gabriella Martinelli che, al fianco di Lula, porta sul palco dell’Ariston la sua Taranto con piglio rock. Il problema riguarda anche molti degli ex Amici e X Factor, da Nigiotti a Alberto Urso, Giordana Angi e Riki, ottuagenari in corpi da ragazzi, con canzoni che sarebbero state antiche anche per Nilla Pizzi e Gino Latilla.

Sole, cuore e amore: possibile che gli “artisti” in gara a Sanremo, soprattutto i più giovani, non sappiano parlare d’altro in una canzone? L’Italia offre spunti continui, storie strepitose, personaggi incredibili. Ma quello resta un rifugio tranquillo, confortante, non fa danni, né espone a troppe critiche.

Sempre più lontana da quel mondo melodico e stucchevole sembra Elodie Patrizi che, complice il sodalizio non solo artistico con Marracash, si inoltra nell’universo urban. Andromeda è un pezzo accattivante, firmato Dardust-Mahmood, cantato con grande presenza scenica, che dà idea del potenziale futuro dell’artista con trascorsi salentini. La nuova Elodie è potente; una donna forte, moderna, elegante e sexy. Finalmente qualcosa di davvero esportabile per la musica italiana; avete presente Dua Lipa?. Nel momento in cui scrivo la sala stampa ha sovvertito la classifica portando in testa Diodato e la sua Fai Rumore: il cantautore tarantino ha scritto e cantato di meglio (Babilonia per dirne una), ma il pezzo c’è. E con la sua vocalità cristallina ed eleganza su quel palco dà lezioni di stile a tanti colleghi. Levante non racconta niente di nuovo su se stessa, TikiBomBom sembra una B-side di un suo disco. È lecito aspettarsi più coraggio da una cantautrice che ha stoffa e carisma.

Tanta eleganza anche per Paolo Jannacci che paga il paragone con il grande Enzo, però la canzone dedicata alla figlia non sfigura e ha un ottimo arrangiamento. Per dare una spettinata all’Ariston dobbiamo attendere il Cuore matto di Piero Pelù, che dà il suo meglio nella serata delle cover. Usato sicuro con Zarrillo, Masini e Irene Grandi che ce la mette sempre tutta e per questo va apprezzata. Stesso discorso valido per Rita Pavone, non supportata da un pezzo all’altezza del ritorno a Sanremo.

Il rap è ben rappresentato sul palco dell’Ariston, grazie alla bellissima Eden di Rancore (c’è lo zampino anche qui di Dardust) e ad Anastasio, rockr-rap alla Rage Aganist the Machine, che deve però imparare a dosare le forze e l’incazzatura: quando lo farà, Caparezza tremerà (scherzo!). Junior Cally senza maschera passa inosservato: se il suo arrivo a Sanremo non fosse stato preceduto da una polemica infinita, nessuno si sarebbe accorto di lui. Il brano è qualunquista, ma potrebbe funzionare. Pinguini Tattici Nucleari in forma e incredibilmente a proprio agio, un frontman con la faccia giusta come Riccardo Zanotti e il refrain che si stampa nella testa: Ringo Starr è una delle canzoni che resteranno di questo Sanremo 70.  Francesco Gabbani ancora una volta convince, tiene il palco come pochi, brano scritto con Pacifico popolare ed efficace. Tosca, una delle poche vere cantanti, è elegantissima, infatti premiata dagli orchestrali. Alla sua Ho amato tutto però manca qualcosa, una verniciata di fresco. Le Vibrazioni fanno Le Vibrazioni e, a quanto pare, la formula funziona. Raphael Gualazzi si traveste da narcos per una divertente escursione Carioca tra fiati e piano cuban jazz. Un filo di voce e poco più per Elettra Lamborghini che però azzecca un ritornello Musica (e il resto scompare) che sentiremo a lungo, ahimè! Il duetto con Myss Keta delude molto: si attendevano scintille, sono stati solo sussurri.

Dulcis in fundo, il caso Achille Lauro. Si grida al genio, ma di geniale c’è soprattutto chi ha ideato una operazione di marketing perfetta, perché di questo si parla. Una trovata per far parlare di sé, tutti i giorni e a tutte le ore, al di là della canzone e della scarsa intonazione. Il duetto su Gli uomini non cambiano è scenicamente perfetto, perché il cantato è lasciato quasi del tutto alla grande vocalità di Annalisa. L’anarchismo griffato Gucci è una invenzione che appartiene a questi tempi di ribelli senza causa e di commerciabilità scambiata per arte. Achille Lauro ha talento, una storia, di vita e di musica, da raccontare (guardare il documentario No Face 1 per farsi un’idea), ma il pezzo non lascia il segno. Tuttavia è sempre apprezzabile chi sceglie di sfidare quel palco, di farsi beffe del perbenismo sanremese, inoltre l’idea di trasfigurare il motto fascista Me ne frego in un inno antiomofobo e antimachista davanti a milioni di italiani è da applausi. Ma non scomodiamo i giganti: David Bowie e Freddie Mercury sono storia, qui facciamo spettacolo, e neanche di grandissimo livello.

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